Se nessuno può cancellare le responsabilità dell’Italia fascista per la sua entrata in guerra nel 1940, nessuno può consentire che scenda l’oblio sul contributo eroico che, dopo l’8 settembre 1943, giorno della resa del Regio Esercito agli Alleati anglo-americani, i soldati italiani diedero alla liberazione di gran parte dei Paesi balcanici (Jugoslavia, Albania, Grecia) dalla occupazione nazista. A serbarne memoria concorre la vicenda di Giovanni Laurito, roglianese, nato un secolo fa (9 febbraio 1922) nella frazione silana di Saliano, combattente partigiano in Albania, che non volle arrendersi ai tedeschi e che, anzi, li combatté associandosi alle formazioni della Resistenza di quel Paese, dov’era giunto come militare di leva in forza alle truppe di invasione coloniale.
Cent’anni da romanzo
Un centenario, una vita da romanzo. Uno di quegli eroi, sin qui, anonimi che pure testimoniano i drammi della Seconda guerra mondiale e che, con aurea iscrizione, meritano di entrare negli annali con la forza del loro passato. Del partigiano Laurito non è solo la vicenda bellica del soldato a suscitare interesse e ammirazione, ma è anche la storia singolare dell’uomo, il vissuto del suo personale dopoguerra, che, dalla condizione di analfabeta e di autodidatta, lo portò, grazie alla sua alfieriana (nel senso del volli, e sempre volli, e fortissimamente volli) tenacia, alla irrefrenabile passione per la lettura, con risultati sorprendenti.
Le rappresaglie dei nazisti
Tra l’8 settembre del 1943 e l’estate dell’anno successivo le truppe hitleriane, che avevano fiancheggiato quelle italiane di occupazione, in Albania, come in Jugoslavia e in Grecia, nella frustrazione della loro sconfitta, oramai ineluttabile, e della rottura dell’alleanza da parte dell’Italia, oramai irreversibile, scatenarono inaudite violenze contro le popolazioni locali e feroci rappresaglie contro i militari italiani in totale sbandamento. Che, pur decimati da deportazioni e da eccidi, come quello di Cefalonia, non mancarono di reagire.
Partigiani all’estero
Il loro coraggio, spinto in ardite controffensive, valse a indebolire le forze tedesche. In Grecia, tra i furiosi combattimenti ingaggiati tra ex alleati nelle isole dell’Egeo, a Corfù, a Cefalonia, i resti della Divisione Pinerolo, in azione nella Tessaglia, si unirono alle formazioni partigiane dell’Elas. Nel Montenegro, quelli delle Divisioni Venezia e Taurianense alimentarono le brigate della Divisione Garibaldi, che recarono un poderoso contributo alla guerra di liberazione.
A Belgrado, si stagliò il valore dei battaglioni partigiani Garibaldi e Matteotti, nuclei della Divisione Italia, che, a fianco degli eserciti jugoslavo e russo, diede riconosciuto vigore alle operazioni in Slavonia fino al maggio del 1945 e alla liberazione di quelle terre. Dappertutto, fu versato sangue italiano. Come in Albania, dove le Divisioni Firenze, Arezzo e Perugia e i cavalleggeri della Monferrato sostennero aspri combattimenti contro i tedeschi per poi dar vita alla Divisione Antonio Gramsci, fornendo alla insurrezione albanese determinanti rinforzi.
La liberazione dell’Albania
Nell’agosto del 1944, l’anonimo soldato di Saliano, con l’esercito in rotta, fu tra quelli che rifiutarono di consegnare le armi ai tedeschi, rischiando così, se non la fucilazione, la deportazione nell’orrore dei lager nazisti. Con altri riuscì a sfuggire alla cattura e a rifugiarsi nelle boscaglie a monte del fiume Erzen, nei pressi di Tirana, sino a raggiungere il comando clandestino della Gramsci, chiedendo d’essere aggregato e di combattere dalla parte dell’Esercito albanese di Liberazione nazionale. Inquadrato come partigiano, non si tirò indietro dalle tempeste di fuoco fino al vittorioso epilogo. Il successivo 17 novembre, a conclusione delle ultime tre settimane di continui, durissimi combattimenti, Tirana fu definitivamente liberata.
Un sagrestano comunista
Tornato in patria, riconosciuto ufficialmente come “Partigiano per gli Italiani” combattente all’estero dal ministero dell’Assistenza postbellica (con nota del 16 ottobre 1948 inviata al Comitato provinciale dell’Anpi di Cosenza), il reduce di guerra (ri)costruì la sua vita, con l’aiuto del parroco, che lo applicò come sagrestano nella chiesa della Madonna del Rosario. Si iscrisse al Partito comunista (Pci).
Lettere al partito
Si dedicò, febbrilmente, alla sua istruzione, divorando libri e giornali. Prediligeva testi di storia e filosofia, saggi di politica, biografie e autobiografie delle personalità storiche che maggiormente lo affascinavano. Maturò, via via, la sua acerba confessione politica di puro comunista sino a farne un credo integralista, una fideistica ragione di vita.
La esprimeva in fluviali lettere, indirizzate ai leader del Pci, un po’ per complimentarsi quando sentiva di farlo, un po’ per dispensare consigli e proposte, molto per richiamarli alla coerenza con i dettami del marxismo. Non pare ricevesse risposte, ma lui si sentiva appagato per il semplice fatto di aver detto la sua e di avere assolto i canoni della sua ortodossia.
La biblioteca di un ex analfabeta
Di frequente, nei pomeriggi d’estate, i paesani lo vedevano seduto sui gradini esterni all’ombra di qualche casa, al centro del borgo, con la testa china, concentrato nella lettura e pronto a compulsare uno dei vocabolari della sua ricca collezione, alla quale non mancavano dizionari dei sinonimi e contrari.
Nella biblioteca domestica dell’anziano partigiano tuttora campeggiano, tra i tanti altri, libri su Marx, su Lenin e sulla Rivoluzione d’ottobre, sul Risorgimento e, persino, un testo della Costituzione cinese; scritti di Rousseau (Origini della disuguaglianza), Stuart Mill (“Saggi sulla religione”), Antonio Labriola (“Lettere a Engels”), Antonio Gramsci (“Americanismo e fordismo”), Aleksandr Sergeevic Puskin (“Storia di Pugaciov”); Cesare Beccaria (“Dei delitti e delle pene”), Giuseppe Garibaldi (“Lettere”).
Non mancano ritagli di giornale, tra i tanti, tutti significativi dei suoi interessi e della sua sensibilità politica: “La discussa eredità di Mao” (L’Unità, 23 settembre 1979); “Tartassati da uno Stato spendaccione” (Gazzetta del Sud, 14 febbraio 1988); “La ritardata notifica di provvedimenti cautelari provocherà l’esodo dei boss del maxiprocesso” (Gazzetta del sud, 3 giugno 1988).
Piuttosto restìo a raccontare il suo passato, Laurito ha dovuto compiere cent’anni (festeggiatissimi nella casa di riposo di Malito, dove da anni si trova), perché venisse fuori la trama d’una esistenza, la sua, votata alla più ferma aderenza alle proprie idee e battagliata, su più fronti, sempre in lotta di liberazione, prima, dalla tirannia, poi, dalla ignoranza. Del Partito comunista continua a sentirsi «militante e portabandiera». Nella sua quadratura culturale, gli viene facile conciliare cattolicesimo e marxismo, con radicale persuasione. «La mia idea – taglia corto – è stata ed è questa. Non la cambio proprio ora, no!».