Un “singolare incrocio di traiettorie” quello tra Elvio Fassone, magistrato di Torino e Salvatore (nome di fantasia), giovane capo della mafia catanese. Un incrocio di vite che Fassone stesso racconta nel suo libro “Fine pena: ora”, edito da Sellerio. Una singolarità dettata soprattutto dalla natura del loro incontro e dal risvolto inaspettato sorto dalla loro relazione.
Un dialogo inaspettato
Salvatore viene condannato all’ergastolo all’età di 27 anni alla fine degli anni ‘80 e attraverso la narrazione della sua detenzione, Fassone ci offre uno spiraglio da cui guardare il mondo carcerario, con tutti i suoi drammi e regole proprie di un’istituzione totale: racconta la storia di uno, ma descrive la condizione di molti. E il fulcro di questa narrazione è la loro corrispondenza.

Questo è uno degli elementi che rendono unico il punto di vista narrativo, perché sebbene chiunque possa e debba interrogarsi su utilità e moralità dell’ergastolo, quando la critica (o autocritica) viene posta da un giudice che vive in prima persona il sistema penale e infligge quella stessa pena, la prospettiva è necessariamente diversa. Se poi quel giudice ha anche la possibilità, rara e inattesa, di entrare in relazione con l’ergastolano appena condannato, il quadro cambia ulteriormente.
Una pluralità di caratteristiche spesso intrecciate con le vicende di cronaca degli anni ’90. Il processo di Falcone e Borsellino, le stragi del 1992, e in seguito la risposta durissima da parte dello stato produrranno un effetto a cascata che si ripercuoterà anche su Salvatore e la sua detenzione, poiché se egli non fosse stato condannato anche per associazione mafiosa, molto della sua vita in carcere, e di conseguenza del racconto di Fassone, sarebbe andato diversamente.
Dal giorno della condanna uno scambio epistolare durato trent’anni
Al momento della condanna nessuno dei due può immaginare la piega che prenderanno gli eventi, né la costanza con cui si accompagneranno a vicenda durante gli anni. Spedendogli la prima lettera, Fassone non nutre alcuna aspettativa, anzi si sente inopportuno, inadeguato. Salvatore invece lo sorprende, come accadrà più volte nel corso della loro corrispondenza e non solo lo ringrazia, lui che di libri non ne ha mai letti, ma gli rivolge parole gentili, genuine, potentissime nella loro semplicità.
Chiude la lettera in questo modo: “Presidente, io lo so che lei mi ha dato l’ergastolo perché così dice la legge, ma lei nel suo cuore non me lo voleva dare.” (pag. 57). Fassone commenta queste parole parlando di assoluzione, come se i ruoli di vittima e carnefice fossero invertiti e qui si scorge un lieve senso di colpa. In questo caso rivolto a Salvatore, ma forse più in generale nei confronti di una pena di cui non riesce a darsi pace.
L’ergastolo ostativo che uccide come la pena di morte
Molte sono le parole che l’autore spende riguardo l’ergastolo, compreso quello ostativo, azzardando un efficace paragone con la pena di morte. Forse non sono la stessa cosa dal punto di vista materiale, ma condividono aspetti drammatici: il detenuto sa che una piena reintegrazione nella società non avverrà mai e tutte le vite che egli avrebbe potuto vivere diventano solo immaginabili. In altre parole, muoiono. E forse muore un po’ anche lui, perché il carcere non punisce solo le azioni sbagliate, ma la persona nella sua totalità, e così facendo rischia di uccidere tutto ciò che di buono vive e resiste ancora, nonostante tutto.
Salvatore è stato condannato all’ergastolo e nel momento in cui ciò è accaduto, ha smesso di essere qualunque altra cosa: condannato per i suoi omicidi, è condannato a essere un omicida per il resto della sua vita. E questo rappresenta il più grande fallimento del sistema penale.

“Fine pena: ora” contribuisce a far accrescere il sentimento di indignazione verso questo sistema. Contraddittorio, a tratti crudele, è un mondo pervaso dall’aridità della burocrazia, che invece di semplificare il lavoro diventa uno strumento per disumanizzare le persone. Persone a cui solitamente non viene concessa alcuna compassione o empatia. Sembra assurdo empatizzare con un assassino, eppure succede ed è necessario, perché al di là delle sue azioni, e andando oltre tutti i discorsi morali sulla pena, quell’assassino resta una persona. E ha il diritto di essere considerato tale, ha il diritto di scontare una pena adeguata.
Il carcere, la sua brutalità e il cambiamento delle persone
Non si intende negare la colpa o le azioni del detenuto: è chiaro che le cose non capitano e basta, bisogna anche scegliersele. Ma anche di fronte a un uomo che forse ha sbagliato tutto nella vita, come si può non guardare al suo desiderio di cambiamento? Crescita personale, buona volontà, non sono forse importanti? Nella società attuale probabilmente non hanno la stessa forza della paura e della vendetta. Fassone si oppone alle motivazioni, per quanto condivisibili, che hanno portato all’ergastolo ostativo: la violenza genera altra violenza, così scrive nel libro. E a modo suo lo intuisce anche Salvatore, che del carcere vive tutta la brutalità. Non solo quella materiale, ma anche quella meno tangibile dello scorrere del tempo.
Questo richiama un altro tema fondamentale del libro. Se il rapporto tra Fassone e Salvatore è il perno dell’opera, c’è tuttavia un filo conduttore che accompagna ogni capitolo, e ne traccia la forma circolare: il libro si apre e si chiude con il tentato suicidio di Salvatore. Con grande sensibilità Fassone riesce a tenere tutta la vicenda assieme, ed evidenziare come il tentativo di togliersi la vita in questo caso non sia semplicemente l’atto disperato di un uomo depresso.

Che nel carcere i suicidi siano un fenomeno drammatico e diffuso è un dato oggettivo. Le statistiche sono sconcertanti e tuttavia in parte comprensibili nonostante i limiti: non si conosce la realtà carceraria finché non la si vive, e non ci si può immedesimare sulla base dei racconti, né si pretende di capire le ragioni di un gesto che resta profondamente intimo e personale. Rinunciare alla propria vita è un’azione che sfugge a qualunque interpretazione troppo netta. Ciò che si può provare a fare è invece analizzare il contesto in cui il fenomeno avviene, chiedersi a cosa si riduce l’esistenza di una persona per convincerla che non abbia più valore.
Le parole di Emily Dickinson per raccontare la resa
Nel penultimo capitolo Fassone apre con un verso di Emily Dickinson: “E se dicessi che non aspetto più?”. Non sapremo mai se questa frase basti per racchiudere lo stato d’animo di Salvatore, probabilmente no, ma forse ne rispecchia il gesto. Quasi trent’anni di detenzione in condizioni precarie, con l’eterna promessa di benefici e permessi che spesso non gli sono mai giunti. E nel suo atto estremo forse troviamo la volontà di cancellare quel “fine pena: mai”, la terrificante data 31/12/9999, quella data che è un beffa, un tempo che non può esistere.
Sono molti gli spunti di riflessioni contenuti del libro, e non è un dettaglio che, nonostante il forte contenuto giuridico, “Fine pena: ora” non è un saggio nel vero senso della parola. Fassone non scrive ai suoi colleghi, si rivolge a ognuno di noi e il messaggio è chiaro: l’unica via possibile, l’unica efficace, è ripartire dalle persone. L’umanità della presenza. Esserci, qui e ora, per non dimenticare e non abbandonare chi soffre, possa questa sofferenza appartenere a chi il dolore lo ha subito, o provocato.
Mariaida Cicirelli