E così il baratro della cosiddetta “calabresità” da esportazione, ormai una specie di pozzo senza fondo di luoghi comuni, dichiarazioni strampalate di identitarismi metastorici e regressioni passatiste e rivendicative, si arricchisce di nuove immaginette e inghiotte anche le immagini dell’abisso del Bifurto. Il pretesto, allettante e di ovvio impatto mediatico, è stato offerto stavolta dal meritato successo del cineasta di origine calabrese Michelangelo Frammartino, che a Venezia 78 ha ricevuto il premio speciale della Giuria per Il buco, un bellissimo film che racconta l’impresa di un gruppo di speleologi piemontesi in Calabria al principio degli anni’60 del secolo scorso.
Tutti sul carro del vincitore
Il film, prodotto da Rai Cinema (e con un contributo dalla passata gestione della Film Commission della Calabria), è un autentico capolavoro. La corsa per intestarselo come al solito è partita due minuti dopo. Ed ecco che spunta, come sempre, puntuale come i comunicati dell’Isis dopo gli attentati, la rivendicazione della “calabresità” (per giunta stavolta “più autentica” dell’autentico, sic!) di autore e pellicola. Ci provano tutti, in testa politici in fregola elettorale, accompagnati da un corteo di figuranti e “dirigenti” di qualcosa che parlano sempre a nome della cultura di questa regione.
Banalità identitaria
Certune di queste affermazioni, more solito, si segnalano per la goffaggine, oltre che per banalità situazionistica: «Uno straordinario riconoscimento ad un talento purosangue calabrese, alla sua passione nel dare un nuovo volto a luoghi e persone del nostro territorio». Poi, «il prestigioso premio a Frammartino è la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione». Poi, il logoro e onnipresente richiamo alla «promozione del territorio, a rafforzare la visibilità del patrimonio naturalistico e artistico locale», che, ovviamente, integra «la giusta strategia da seguire per ribaltare, in termini positivi, la narrazione del nostro territorio al di fuori dei confini regionali». Insomma ammuina, pura retorica identitaria a palate.
Le solite etichette
Possibile che il giusto (e forse persino tardivo) riconoscimento al valore di un artista e a un’opera d’arte così originale non riesca qui da noi a evitare il dazio di etichette e rivendicazioni identitarie così spropositate e arbitrarie, così vistose e marchiane? Può un film diventare «una straordinaria storia in grado di esaltare la vera “calabresità”, con il suo cuore autentico»? E cos’è mai, se qualcuno può dirlo con cognizione di causa, la “vera calabresità” dei calabresi e della Calabria oggi, nel 2021? E perché mai il prestigioso premio a Frammartino, che è il riconoscimento a un artista e alla sua opera, sarebbe «la dimostrazione di quanto la forza delle nostre radici e il bagaglio storico e culturale calabrese rappresentino un patrimonio capace di rilanciare l’immagine e la reputazione della regione a livello nazionale ed internazionale»? Lo stesso Frammartino si è subito affrettato a smarcarsi da simili inciampi da strapaese dichiarando, ben oltre il suo amore per la Calabria («La Calabria, la regione più bella del mondo», certo, why not?), che il suo film è una personalissima esplorazione dell’umano e della natura, «è la storia di un abisso, e noi siamo speleologi del cinema underground».
La Calabria di oggi
È anche il caso di ricordare a tutte le anime belle che hanno a cuore questa regione a colpi di spot e proclami, che solo un paio di settimane fa piangevamo i roghi boschivi e gli incendi devastanti appiccati con dolo criminale che hanno annichilito le foreste calabresi in Aspromonte, in Sila, sul Pollino (il Monte Sellaro, la stessa montagna percorsa dal fuoco, non distante dal set del film di Frammartino). Che questa è la regione dove comandano ’ndrangheta e massomafie. Che la politica è quella che ne ha fatto la regione peggio amministrata d’Europa. Che i treni viaggiano ancora senza elettricità, che gli ospedali sono lazzaretti. Che qui si muore di malasanità, ma anche di noia e di conformismo.
È ancora il caso di ricordare che molti di quei luoghi bellissimi che vorremmo buoni per viverci e prosperare sono oberati dal cemento, inquinati da discariche, da cumuli di monnezze abbandonate in ogni angolo e violati da abusi di ogni genere. Che il mare è sporco e che turismo tanto strombazzato è il trionfo dell’economia dipendente e di una monocultura consumista e massificata, pericolosissima. Che le nostre magnifiche montagne, buone per i film e per le cartoline per escursionisti della domenica, si spopolano ogni giorno di più e franano puntualmente dopo gli incendi dell’estate. Che i paesi chiudono perché non c’è più vita, che i giovani calabresi emigrano ogni giorno anche se adesso vanno via con laurea, ma sono tanti, troppi. Che le “eccellenze” calabresi diventano tali solo quando trovano opportunità fuori da questa regione, che espelle i migliori e mortifica chi resta.
E che in fondo quel film di cui oggi molti fanno ruffianamente gli elogi, che racconta di una voragine senza fondo in cima a una montagna, è un po’ come noi, come la Calabria di adesso. Un enigma. È un film fatto di silenzio e di buio. Di pietra, di vento, e di abissi di pietra. E che l’unico calabrese che vi compare con una parte nella storia – gli speleologi che esplorano il buco sono ragazzi piemontesi dell’Italia del Boom – è un vecchio, un taciturno e certo ben poco arcadico pastore del Pollino (Frammartino predilige i vecchi pastori nei suoi film). E il vecchio è una figura scabra, antiretorica, solitaria, arcana, vuota e piena allo stesso tempo; uno che sembra muto, di pietra anche lui, come la voragine che sprofonda ogni cosa dentro l’ombelico del mondo che si spalanca nella fessura lì vicino.
L’originale bellezza di Frammartino
Come antropologo e scrittore seguo, e non credo di essere tra i molti, il cinema di Frammartino dagli esordi. Ritengo che i suoi film siano una delle poche cose davvero interessanti spuntate negli ultimi vent’anni nell’asfittico panorama della cinematografia italiana. Quello che fa vedere e racconta non assomiglia a nessun altro. Il suo è un cinema che prescinde dai condizionamenti di genere e dai retaggi ai quali la maggior parte dei suoi colleghi sembra oramai assoggettata (con l’eccezione, secondo me, di autori che recentemente hanno messo modernamente a tema un riflesso ambiguo e scivoloso come quello identitario, quali Pietro Marcello, La bocca del lupo e il recente Martin Eden, e Alice Rohrwacher, in Corpo celeste).
Quando stupì Cannes con Le quattro volte
Frammartino, 53 anni, nato a Milano da genitori calabresi originari di Caulonia, è regista non nuovo a importanti prove d’autore che mettono a tema con originalità e straordinaria potenza narrativa il rapporto con la terra delle origini. Prima che con Il buco lo ha già fatto con pellicole dal budget limitato ma intensamente poetiche e di grande impatto artistico, come Il dono (2003), la sua opera prima, un piccolo film ambientato nel paese natale dei genitori, che ristampato in una copia in 35mm fu poi proiettato al Festival di Locarno. Nel 2010 scrive e dirige Le quattro volte, un documentario etnografico, un film mimetico, magico e misterioso, sulle tradizioni dimenticate dell’Appennino calabrese. Un film che è anche una sorta di apologo, un moderno conte philosophique sul persistere delle credenze animistiche nelle civiltà rurali non ancora travolte e cancellate dalla modernizzazione omologante. Le quattro volte, presentato con successo alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, fu anch’esso girato in Calabria da Frammartino, che portò allora il suo set in tre luoghi differenti: Alessandria del Carretto, Caulonia e Serra San Bruno.
Raccontare l’indicibile à la Werner Herzog
Il buco è un film che ancora una volta sullo sfondo di magnifici e inquietanti scenari naturali e antropici calabresi affronta l’indicibile, con il mistero del mondo delle grotte e degli abissi della natura più indomita e inospitale e l’esplorazione del regno minerale, in cui la pellicola si immerge poeticamente quasi solo con l’ausilio delle immagini. Come in un suo film Werner Herzog, Cave of Forgotten Dreams (realizzato dal cineasta tedesco nel 2010) trattava dei misteri dei dipinti paleolitici sepolti nella Grotta Chauvet nell’Ardèche francese, qui Frammartino sprofondando il suo racconto per immagini nell’abissale inghiottitoio, mai prima esplorato, che si apre in una fenditura della roccia in cima al monte Sellaro sul massiccio del Pollino (una dolina che sprofonda nel vuoto vertiginosamente per quasi 700 metri, creduta a quel tempo una delle grotte più profonde del mondo), sonda nello stile del suo cinema l’esperienza dell’insondabile, il buio profondo, l’angoscia di conoscere, la paura e l’ansia di perdersi in questa stessa avventura.
Non è un film sulla vera identità calabrese
Nella storia, non a caso, il regista adotta il punto di vista alieno e spaesante dei giovani e ignari speleologi piemontesi che furono attratti in questo recesso della Calabria più isolata e impervia nel lontano 1961, per poterlo esplorare sino in fondo, con rispetto e ammirazione, non privi in partenza di pregiudizi e luoghi comuni. Vince su tutto la misteriosa e affascinante bellezza di luoghi che sembravano fuori dalla storia. Un salto nel buio che è anche un salto nel tempo, negli interrogativi del presente. Infine, alla stregua di un filosofo e antropologo dei giorni nostri, il regista ha manipolato il materiale così faticosamente raccolto per trarne una riflessione di straordinaria intensità e rigore sull’enigma dell’esistenza. Non quindi un film sulla presunta “vera identità calabrese”.
L’insegnamento che risale a Pitagora
La lezione di Frammartino ancora una volta sembra invece scandita da un insegnamento che risale a Pitagora, secondo il quale in ciascun essere ci sarebbero quattro vite distinte, ma unite nel passaggio dell’una nell’altra: minerale, vegetale, animale e razionale. Il film che ci getta tutti nell’esplorazione folle e meravigliosa che avviene dentro – ma anche intorno – a quel buco oscuro del Pollino ci lascia attoniti e senza fiato come in un viaggio nella maestà arcana di un luogo di natura essenziale. Un’immersione abissale attraverso questi stadi fisici e metafisici in cui tutto è avvolto dall’incertezza, dal pericolo, dal buio. E anche il vecchio pastore calabrese, che con i suoi silenzi, i suoi gesti arcani e misteriosi e i pochi verbi smozzicati fa da contrappunto ai giovani e temerari speleologi del nord, pare così antico e mitologico da sembrare una divinità primordiale, tanto da far dubitare che possa essere davvero sopravvissuto sino ai giorni nostri.
La calabresità vera che non esiste
Anche in questo caso, quindi, Frammartino tratta la “sua” Calabria come un archetipo, e affronta con un linguaggio poetico e congiuntivo la nostalgia di un’identità primordiale cancellata per sempre dal peccato originale della civiltà industriale. Ma formula anche un richiamo implicito alla ricerca di un nuovo equilibrio, semmai capace di ricomporre la frattura fra il genere umano e gli altri esseri viventi: piante, animali, rocce, polvere, luce, buio, acqua, vento. C’è di mezzo un abisso. Come quello del Bifurto sul Pollino. Poi c’è, ci sarebbe, la “calabresità vera”, appunto, che non c’è, che nessuno sa o può sapere davvero cosa sia veramente. E nel caso, francamente, ne facciamo pure volentieri a meno.