Un beato con le ossa d’asino. A Cosenza erano attivi molti abili falsari pronti a produrre documenti per soddisfare le esigenze di gente senza scrupoli. Grazie ad essi si potevano accampare diritti di possesso di terre, ottenere privilegi fiscali, impossessarsi di eredità e attestare nobili origini. Anche preti e monaci erano specialisti nel fabbricare false prove, cosa che spinse Emily Lowe a scrivere che, avidi di denaro e pronti ad arricchirsi in tutti i modi, manipolavano persino testamenti! Tra il Cinquecento e il Settecento sono numerosi i cosentini sotto accusa per aver esibito documenti falsi che certificassero un’origine nobile o per avere redatto falsi testamenti. Ma la truffa che suscitò scandalo anche fuori dai confini cittadini e del regno fu, senza dubbio, quella attribuita a Ferdinando Stocchi.
La truffa di Stocchi
Stocchi, presbitero appartenente a una famiglia patrizia della città, era secondo alcuni un uomo curvo e obeso, con occhi piccoli, capigliatura rada e trasandato nel vestire, ma apprezzato studioso, autore di alcuni componimenti poetici e scientifici, eletto addirittura presidente dell’Accademia dei Negligenti. Secondo Misarti era nato a Scigliano nel 1611 e, dotato di «non ordinario ingegno», aveva studiato a Napoli, Roma e Bologna, per stabilirsi a Cosenza dove si aggregò al Sedile dei nobili e fu acclamato principe dell’Accademia de’ Costanti. Subì un processo per le accuse di un «frate zotico» ma fu prosciolto e riprese la sua attività di studioso pubblicando due opere.
Stocchi divenne amico di Carlo Calà, potentissimo e ricchissimo Presidente della Regia Camera della Sommaria. Approfittando del cruccio di questi, che non poteva ostentare nobili origini, gli confidò di essere a conoscenza di antiche memorie che attestavano la sua discendenza da una famiglia Calà imparentata nel XII secolo con i reali d’Inghilterra e di Svevia. Il Calà, scrive Paoli, entusiasta all’idea di poter vantare una genesi così gloriosa, diede a Stocchi ventiquattromila ducati per recuperare i documenti dei suoi illustri antenati.
L’abate cosentino, per «ingannare anche gli esperti», assoldò abili falsari. Fece stampare libri e riprodurre in pergamene lettere, memorie, codici, epigrammi, iscrizioni, inni, orazioni e altre carte ingiallite e sforacchiate che in tutto «passavano il centinaio». Secondo queste fonti, i fratelli Giovanni e Arrigo Calà, presunti avi di Carlo, avrebbero seguito Enrico VI di Svevia in Calabria ricoprendosi di gloria e titoli nobiliari «di spada». Giovanni Calà, valoroso capitano, dopo avere incontrato a Corazzo Gioacchino da Fiore si ritirò in eremitaggio vivendo in santità per il resto della vita.
Il profeta e gli «infiniti miracoli»
Questi documenti “inediti” in cui si ricostruiva l’avventurosa storia dei fratelli Calà, fatti ritrovare in monasteri, archivi privati e biblioteche come la Vaticana e l’Angelica, suscitarono grande entusiasmo tra gli eruditi del regno. E molti li citarono nelle loro ricerche finendo «per impastare la stessa pessima farina».
Sulla base della ricca documentazione fornita da Stocchi, il presidente della Sommaria scrisse e pubblicò una storia degli Svevi nel regno di Napoli e in Sicilia. All’interno, ampio spazio per i suoi illustri capostipiti. Diverse pergamene e memorie di «antichissimo carattere», di cui molte parole «non si potiano leggere perché cancellate dall’antichità», attestavano «cose stupende e meravigliose» su Giovanni che già in vita era appellato «santissimo padre, specchio degli anacoreti e profeta del Signore».
Nel trattato Processus vitae Ioannis Calà, si leggeva che era nato nel 1167, aveva partecipato alla conquista del Regno di Napoli nel 1191 ed era trapassato a godere del cielo nel 1265, dopo sessantaquattro anni di vita santa. L’abate Gioacchino da Fiore, in una lettera all’imperatrice Costanza, scriveva che Calà aveva condotto vita eremitica morendo in santità, era un profeta e aveva fatto «infiniti miracoli». Egli stesso aveva visto, davanti all’uscio del suo romitaggio un gran mucchio di forcole e bastoni che «zoppi e stroppiati» avevano lasciato in segno della loro guarigione. Del beato Giovanni esisteva persino un ritratto dipinto da un pittore di Castrovillari a cui il Calà era comparso in sogno manifestando il proprio desiderio di tramandare ai posteri la sua figura.
Spuntano anche le reliquie
Grande meraviglia e commozione nella regione suscitò, nel 1654, il ritrovamento dei resti del «beato». Le reliquie, chiuse in una cassa preziosa con tre chiavi, divennero subito oggetto di culto. E, in quello stesso anno, furono solennemente portate in processione, secondo alcuni a Cosenza, secondo altri a Castrovillari, per dare loro degna sepoltura. Nel 1666, però, tra lo stupore generale, il Tribunale dell’Inquisizione di Roma privò del titolo di beato Giovanni Calà. Il cardinale Crescenzio, vescovo di Bitonto, incaricato dalla Congregazione dell’Indice di analizzare i documenti sulla vita del sant’uomo, al termine di una faticosa ricerca aveva stabilito che si trattava di carte false.
Negli ambienti napoletani la truffa era di dominio pubblico tanto che Fusidoro, pseudonimo di Vincenzo D’Onofrio, scriveva che il vanaglorioso Calà aveva pubblicato la storia degli Svevi per rivendicare alla sua stirpe origini reali e sante, costruendo l’opera con documenti e pergamene prodotte da esperti falsari, tra cui l’ingegnoso Farinello. Anche per Domenico Confuorto, alias Fortundio Erodoto Montecco, il libro sulla famiglia Calà era più zeppo di «bugie che di parole, più spropositi che righi», ove si leggevano «chimerazzi e favolosi personaggi» descritti nei romanzi e nei libri di cavalleria.
Il beato con le ossa d’asino
Erano state lettere anonime e ammissioni della truffa di alcuni falsari a spingere le autorità ecclesiastiche a intervenire sulla storia del beato Calà. Il gesuita Pietro Giustiniani aveva raccolto la confessione di un uomo che si era reso responsabile insieme a Stocchi della «tessuta ribalderia». Costui aveva dato licenza di rendere pubblica la propria confessione, ma chiedeva che non si rivelasse il suo nome per «timore di essere ammazzato». Secondo Paoli era stato invece lo stesso Stocchi, mosso da «crudel rimorso», a rivelare la truffa in punto di morte. Mentre per altri a svelare l’inganno era stato il gentiluomo cosentino Angelo di Matera, suo complice.
Questi, gravemente ammalato e assalito dal rimorso, confessò l’imbroglio in una scrittura consegnata a un notaio, pregandolo di recapitarla al vescovo di Martorano dopo la sua dipartita finale. Egli rivelava che, insieme al «solennissimo ciurmatore» Stocchi, aveva prodotto pergamene false e che le reliquie del beato erano in realtà ossi d’asino. Venuto a mancare il Di Matera, il presule mandò l’incartamento a Roma, dove la Congregazione Generale Romana istituì un processo condotto da padre Giustiniani. Questi appurò che le carte erano effettivamente false e che la storia del beato era un’invenzione. Il 27 giugno 1680, il culto del beato Giovanni Calà venne proibito. Il destino di libri, pergamene, codici, libretti e immagini che lo riguardavano? Prima il sequestro e poi le fiamme.
Una truffa che fece il giro d’Europa
Gli studiosi si interrogarono a lungo sul perché una truffa così audace di cui si parlò in tutta Europa non fosse stata subito smascherata. Paoli scriveva che la storia del beato Calà inventata da Stocchi era indubbiamente ben architettata, ma «conteneva cose più degne di un poema che di storia». Le ricostruzioni storiche erano piene di evidenti errori, contraddizioni e fatti assolutamente inverosimili, quali le virtù attribuite a Giovanni Calà.
Questi veniva presentato come un uomo dalla forza superiore all’«umana natura», non inferiore a quella di Sansone e pari solo a quella di Ercole. Paoli si stupiva che i contemporanei non avessero esaminato e contraddetto un tale «ammasso di contraddizioni» e fatti «degni di un poema d’Ariosto». Sarebbe stato facile capire che i testi citati dal Calà erano falsi: nessuno aveva mai sentito parlare degli autori e nessuno ne avrebbe trovato copie nelle biblioteche.
Troppo potente per sbugiardarlo
Il silenzio e l’omertà degli studiosi contemporanei probabilmente si doveva al fatto che Carlo Calà era un uomo molto temuto. Padre Russo lo descrive come arrogante e vendicativo nei confronti di coloro che osavano criticarlo: Giuseppe Campanile, che nel febbraio del 1674 aveva avanzato dubbi alla sua Istoria degli Svevi, finì subito in prigione! Calà era uno degli uomini più potenti del Viceregno e il processo che aveva dimostrato la non autenticità delle reliquie di Giovanni Calà e la non attendibilità delle fonti documentarie che lo riguardavano, sarebbe rimasto segreto. Se non avvenne, è solo per l’imprudenza del Vicario Generale di Cassano, Giacinto Miceli, che aveva autorizzato il culto del beato Giovanni.
A quel punto il Tribunale dell’Inquisizione dovette comunicare a papa Innocenzo XI il verdetto del processo istruito da Giustiniani. Calà era così sicuro della sua impunità che, pur essendo a conoscenza delle critiche sul suo libro e dell’inchiesta in corso, nel 1665 dava alle stampe una versione dell’opera in latino. Del resto, come ricorda padre Russo, scattò il divieto per il culto del beato, ma il volume di Calà non finì all’Indice dei libri proibiti.
A Cosenza si festeggia
La truffa di Stocchi fu una tra le più ardite e celebri mai realizzate in Italia, capace di produrre il culto di un falso beato e di coinvolgere addirittura il potente Presidente della Sommaria. Se nessuno avesse svelato l’inganno, i fedeli avrebbero continuato a venerare e a ritenere reliquie di un santo dalle ossa d’asino. Il ricordo di questo beffardo episodio rimase vivo nella memoria dei cosentini dal momento che Pilati, giunto a Cosenza nel 1775, scrisse che un tale Stocco, gran letterato e nemico del clero, un giorno decise di far venerare pubblicamente gli ossi di un asino come reliquie di un santo. Aveva organizzato così bene la beffa che l’arcivescovo prima e lo stesso papa poi canonizzarono un fantomatico beato. I cosentini, entusiasti per quella proclamazione, istituirono una festa per la venerazione delle reliquie. E lo stesso Stocco compose l’inno da cantare per l’occasione.