Si potrebbe parafrasare la lapide posta 75 anni prima su un lato dell’ingresso del Teatro Rendano, modificandone i versi di Giovanni Bovio – ispirati alla celebrazione della Breccia di Porta Pia – e rendendoli così: “Questa data politica dice finito il nazifascismo negli ordinamenti civili. Il dì che lo dirà finito moralmente sarà la data umana”. Dico questo dal momento che in questo 25 aprile, dopo quasi 80 anni, sembra ahimè piuttosto evidente che la fine morale non è ancora avvenuta. E non parlo tanto delle recrudescenze, non parlo solo di certe nostalgie estremistiche. Parlo di qualcosa di ben più generale, di altrettanto preoccupante, e soprattutto strisciante: di quella sorta di metastasi culturale che, senza neppure sgomitare tanto, si fa strada per inerzia e con molta comodità. Potrei chiamarla semplicemente ignoranza ma credo sia qualcosa di diverso.
Il 25 aprile inconsapevole
Il 25 aprile (giusto, desiderato, ottenuto, sofferto e quindi sacrosanto) è diventato per troppi un espediente per la celebrazione tout court. Vero è che non c’è da stupirsi molto, in un Paese che – se pur formalmente a maggioranza cattolica, e talvolta profondamente osservante – festeggia pure le ricorrenze religiose con ben scarsa consapevolezza di cosa si celi dietro una precisa data. Ma quando si parla di date civili, appunto, il problema potrebbe e dovrebbe irritare di più.
Era il 2015 quando Ballarò mandava in onda questo servizio, a dir poco mortificante:
Giovani e meno giovani assolutamente ignari di cosa sia la Liberazione, di quando abbia avuto luogo, e da cosa ci abbia liberato.
Nei giorni tra il 25 aprile e il 1° maggio di ogni anno, definibili bassa marea dialettica, il già dilagante analfabetismo funzionale sui social dà un’accelerata alle proprie rotative, in cui troppi ripetono a vanvera le stesse due o tre nozioncine imparate – se va benissimo – su qualche bignamino. Il problema risiede anche – non solo – nel fatto che gli accadimenti vengono spesso raccontati male, forse pure in buona fede, in un guazzabuglio di concetti e in un affastellamento di micro-periodi storici che si susseguono e si accavallano l’uno all’altro in una narrazione approssimativa.
Le bombe alleate
Voglio fare un esempio, o più d’uno. E comincerei da questa foto cosentina. È la foto che ormai funge da testimonianza dei tragici bombardamenti che colpirono Cosenza il 12 aprile 1943. Bene: questa fotografia dovrebbe considerarsi un simbolo sì, ma non una testimonianza, in quanto col 12 aprile non ha nulla a che vedere.
Per fatto personale: questa istantanea fotografa infatti il momento forse più tragico nella storia del mio ramo paterno, ovvero l’istante esatto in cui una bomba colpisce il palazzo di famiglia in cui in tre piani e mezzo vivevano i miei nonni, la mia bisnonna con altri tre figli, altra nuora e un nipotino (fortunatamente tutti già al riparo nella località in cui erano sfollati per precauzione). È la nuvoletta più a sinistra nella foto, a mezza altezza, ad indicare il preciso momento in cui tutto un patrimonio familiare, morale e simbolico, non solo materiale, va letteralmente – è il caso di dirlo – in fumo.
Ma non è il 12 aprile: dalla documentazione relativa ai Danni Bellici, redatta dal Genio Civile e oggi custoditi presso l’Archivio di Stato di Cosenza, il quartiere delle Paparelle – o, meglio, via Alfonso Salfi – risulterebbe essere stato bombardato il 28 agosto. Mia nonna ricordava invece la mattina dello stesso 8 settembre, in extremis, ma l’ultimo bombardamento su Cosenza risale in verità al 7 settembre (per la cronaca, Cosenza è stata bombardata – oltre all’ormai arcinota data del 12 aprile e alle altre due appena dette – anche il 6 e il 31 agosto, nonché il 3 e il 4 settembre).
Liberata e stuprata
Ora, facciamo due più due: considerato il tenore delle risposte date dai passanti nel servizio del link qui sopra, quanti saprebbero dire chi ha sganciato quelle bombe? Non molti, temo. A futura memoria è forse bene ricordarlo: i bombardamenti del ’43 su Cosenza (e purtroppo non solo su Cosenza) furono opera degli Alleati angloamericani. E ciò va detto per chiarezza storica, e poi per un altro motivo: per tenere sempre a mente il fatto che nessuna Liberazione è priva di costi, nessuna è candida e senza macchia.
A pensarci bene, la questione non è poi tanto diversa da analoghe situazioni odierne, in cui alcuni protagonisti vengono stigmatizzati per la loro discutibile “esportazione di democrazia” in Paesi già piagati da questioni tutte loro. Ed è quindi giustissimo, credo, che assieme alla celebrazione si affianchi anche un momento di orgoglio di segno diverso: Italia liberata, sì, ma pure stuprata purché si liberasse.
Le marocchinate
Stuprata, dicevo: giusto per ricordare quanto a troppe donne (e non solo) sia costata la Liberazione per mano di alcuni ‘lealissimi’ alleati (e sempre al netto dei ‘misericordiosi’ bombardamenti tattici), basterebbe pensare al capitolo dolorosissimo, e ancora di dominio meno pubblico di quanto dovrebbe essere, delle marocchinate, ovvero le violenze perpetrate dai goumiers nel Lazio (ma anche in Toscana, Sicilia, e probabilmente anche in altri luoghi in cui si preferì per vergogna insabbiare anche il dolore delle vittime e dei sopravvissuti). Immaginatevelo voi, un esercito di 120.000 uomini – nordafricani in forza all’esercito francese – colpevoli di oltre 7.000 stupri ai danni di donne, bambine, vecchi e vecchie.
Sono convinto che, se certi eventi storici fossero meglio conosciuti, quantomeno il giudizio di non poche donne sulla Liberazione sarebbe meno entusiasta. Vittorio De Sica nel film La Ciociara ne dipinse il quadro tragico, e ancora di più Curzio Malaparte nello scabroso e magnifico romanzo La Pelle. Sono gli stessi goumiers della pagina in cui trattano con alcune mamme napoletane intorno al prezzo dei bambini offerti sul libero mercato dei vicoli.
Gramsci, il partigiano postdatato
Sempre nei giorni della ‘bassa marea’ dei luoghi comuni celebrativi e/o retorici, fa capolino, puntuale, una citazione gramsciana: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano”. Tutto molto bello e condivisibile. Ma questa frase fu scritta dal Gramsci socialista e crociano del 1917 sul giornale La città futura, testata altrettanto socialista, in tutt’altro contesto e riferendosi alla Russia e a ben altro concetto di ‘partigiano’.
È validissima lo stesso, per carità (e per fortuna) ma, diamine, questa frase fu scritta quando qui non solo non c’era ancora nessuna Resistenza né alcun partigiano. Quando non solo non c’era una dittatura, ma quando non esisteva nemmeno un partito fascista, nemmeno i primi fasci. E quando il giovane Mussolini era ancora direttore del Popolo d’Italia, col sottotitolo Quotidiano socialista. Socialista, appunto, al pari dello stesso Gramsci. Odio gli indifferenti anch’io, dunque. Ma certe volte c’è addirittura molta più indifferenza nella partecipazione acritica, inconsapevole. E un certo antifascismo autoincoronato – dico “un certo” – che pure esiste, mi pare vada in vacanza e ritorni a scadenze precise.
Fascisti e antifascisti
Altro esempio: a Bologna, per ricordare la caduta del governo fascista si mettono le corone ai caduti di un movimento nato successivamente e a quelli di un fatto precedente alla nascita del suddetto governo.
Nel frattempo il piucchefascista Dino Grandi (due volte ministro, ambasciatore a Londra) concluse la sua carriera politica con l’ordine del giorno del 25 luglio 1943 che porta il suo nome, determinando per primo la caduta del regime fascista (e venendo perciò dagli stessi fascisti condannato a morte, pur riuscendo a scamparla). Ripudiato da gran parte della destra in quanto ‘traditore’ del fascismo, dalla sinistra in quanto ex fascista tra i primi e maggiori, il suo funerale passò in sordina e la sua tomba resta oggi pressoché dimenticata, con due fiori appena nel cimitero della stessa Bologna, dove all’ufficio informazioni vi chiedono se fosse un partigiano.
Bisognerebbe domandarsi – e rispondersi correttamente – quanto merito abbia avuto lui, nella Liberazione dell’Italia dal Fascismo. Ecco, mettiamocelo in testa: senza il fascista Grandi, la Liberazione di due anni dopo ce la sognavamo, con e senza quella Resistenza che – come scrisse l’esule Mario Bergamo (mica uno qualunque) – «non deviò d’un centesimo (…) il corso della guerra. Giovò alla liberazione militare dell’Italia quanto il fuoriuscitismo alla sua liberazione civile».
La Calabria e l’Italia dopo il 25 aprile
E da noi, in Calabria? Poco e niente, siamo la Calabria di Michele Bianchi, da una parte, e del martire civile Francesco Misiano, dall’altra. Domandatevi chi meriterebbe d’essere conosciuto più e meglio. La prendo alla larga ma è un discorso molto, molto generale, che ha a che fare anche con i fallimenti dell’epurazione. Per farla molto breve: Churchill aveva ragione da vendere quando notava che l’Italia era passata dall’avere 45 milioni di fascisti ad avere il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani, pur non avendo mai contato 90 milioni di abitanti.
Insomma, teniamocela strettissima, questa Liberazione. Ma teniamoci stretto anche il coraggio di chiederci se sulle sue braci – ché di braci si è comunque trattato, e non soltanto dei sorrisi e degli abbracci del 25 aprile 1945 – si sia riusciti a costruire l’Italia meritata e sperata e non invece qualcosa di maldestro, ancora diviso tra bianchi e neri, buoni e cattivi, e con la solita corsa all’oro di ogni tempo, le solite sperequazioni e gli stessi voltagabbana ai posti più o meno di comando.
Guerra e pace
Due ultime citazioni per concludere: ve lo ricordate quel film di Scola, C’eravamo tanto amati? La frase, in apertura, «finita la guerra, è scoppiato il dopoguerra» è di Suso Cecchi d’Amico (non di Flaiano – che si espresse, poi, in modo analogo – né di Scola, né degli sceneggiatori Age o Scarpelli). Vent’anni prima ne scrisse una simile proprio Mario Bergamo: «Il Fascismo ha perduto la guerra, l’Antifascismo ha perduto la pace». Intelligenti pauca.