Lulù suona le foglie e aspetta, aspetta che sua madre ritorni per farle ascoltare le sinfonie tristi che ha composto nel manicomio di Girifalco. Lo hanno internato perché soffre di crisi epilettiche ma lui è uno di quelli che possono uscire dalla struttura e andarsene in giro. Il paese del Catanzarese è infatti uno dei primi luoghi in cui è stata sperimentata l’apertura delle porte dell’ospedale psichiatrico: i malati meno gravi, quelli sicuramente non pericolosi, hanno la libertà di interagire con i paesani e così diventano parte della comunità. Tutti conoscono Lulù il pazzo e tutti, tranne lui, sanno che sua madre non tornerà. Lui no, è ignaro del suo destino e non sa che un bambino del suo paese, diventato da grande uno scrittore, ha trasformato il ricordo della sua quotidiana, mesta attesa in una storia che resterà per sempre.
Elogio della follia
Quel bambino si chiama Domenico Dara e della sua Girifalco scrive che «era delimitata a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte». Della morte sappiamo tutto e niente, mentre la follia Dara la paragona a un polline «che quando soffiava il vento si spargeva sulle teste ignare delle genti e le inseminava». È proprio per questo che «anche quando il manicomio non ci sarebbe più stato i pollini avrebbero continuato a volteggiare nell’aria per azziccàrsi di tanto in tanto in qualche padiglione auricolare a modificare gli ingranaggi della meccanica umana e celeste».
Lulù il pazzo, esistito davvero, è il primo di sette personaggi di cui Dara intreccia i destini nel suo secondo romanzo, Appunti di meccanica celeste, che segue le tracce narrative lasciate dal fortunato esordio con il Breve trattato sulle coincidenze, entrambi editi da Nutrimenti. La malattia mentale in realtà serpeggia anche tra le righe del suo terzo lavoro, Malinverno, arrivato con Feltrinelli alla quarta ristampa, ma Dara tra presentazioni e reading estivi si è ora messo in testa – giusto per restare in tema – un altro pallino: lui e l’assessore comunale alla Cultura Elisa Sestito vogliono che Girifalco sia ufficialmente riconosciuta come “Città dei pazzi”.
Un riconoscimento diverso da tutti gli altri
Sì, mentre orde di sindaci in ogni angolo d’Italia battagliano armati di gonfaloni e delibere per avere questo o quel riconoscimento pomposo, Dara vuole consegnare dignità solenne a una reputazione che di fatto il suo paese si ritrova appicicata addosso fin dagli ultimi anni dell’800. Che sia per esorcizzarne i fantasmi, per ammantarlo di esotismo o anche solo per una disinteressata strategia di marketing, la sua – moccivò – folle missione sta trovando il sostegno non solo di alcuni amministratori ma anche di associazioni locali che sembrano assecondarne gli obiettivi.
Dal manicomio al palco
Come? Riempiendo quel luogo di storie perdute con iniziative come il Premio “Città di Girifalco”, in corso in questi giorni e che proprio stasera propone un momento che si preannuncia di grande intensità. A Girifalco, nel paese dei pazzi, nel Complesso monumentale in cui dal 1881 al 1978 sono passati 15.794 pazienti, arriva il Teatro patologico di Dario D’Ambrosi. Se avete visto L’Odissea raccontata da Domenico Iannacone su Rai Tre sapete di cosa si parla. Se non l’avete vista fatelo prima o dopo essere andati a Girifalco a vedere quanta poesia e bellezza sanno portare sul palco le persone con disabilità fisica e psichica cui D’Ambrosi dedica la sua vita e la sua arte.
Il manicomio di Girifalco è stato raccontato in molti modi. Lo hanno fatto, tra gli altri, Barbara Rosanò e Valentina Pellegrino con il docufilm Uscirai sano e Oscar Greco con il libro I demoni del Mezzogiorno. Il cantante Simone Cristicchi ne è stato ispirato per la sua “Ti regalerò una rosa” e il Fai lo ha inserito nel censimento dei luoghi italiani da non dimenticare.
Per molti dei ricoverati la diagnosi di una malattia mentale, o di quella che all’epoca veniva a torto a ragione identificata come tale, si è tradotta in tanti anni di solitudine, di povertà, di abbandono. Ci sono anche storie assurde come quella di Giuseppe Astuto (internato a soli 9 anni pur essendo sano – hanno raccontato Le Iene – per un gesto innocente che ha segnato l’infanzia e la sua intera vita. È successo questo e molto altro nella città dei pazzi. Non lasciare che le microstorie di chi ci ha vissuto si disperdano come il polline nel vento può essere un piccolo, appena giusto risarcimento per tanta sofferenza.