Siete mai stati terroni? Il vibonese Giovanni Parisi una volta sì, quando era povero. Poi, veloce come i suoi pugni, è diventato un campione, uno dei più grandi che lo sport italiano abbia mai avuto. E più veloce ci ha lasciati, schiacciato tra le lamiere lungo le strade di Voghera, la città che lo aveva adottato. Aveva 42 anni. Lassù, nella provincia pavese dove il piccolo emigrante calabrese aveva trovato in palestra il rifugio dalle frecciate degli altri ragazzi sulle sue origini, Giovanni Parisi è ancora un eroe.
Oggi invece, pochi giorni dopo quello che doveva essere il suo 55esimo compleanno, di lui nella sua Calabria, nella sua Vibo, non restano che qualche sparuta traccia e sbiaditi ricordi. Eppure di questa terra – che oggi prova con dubbia grazia a intestarsi un briciolo dei successi di Marcell Jacobs celebrandone le estati rosarnesi – Giovanni Parisi resta il solo ad aver vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi moderne. Non solo: insieme a Nino Benvenuti e Patrizio Oliva (trionfatore però nell’edizione “dimezzata” di Mosca ’80) è l’unico pugile italiano ad avere aggiunto nella propria bacheca anche la cintura di campione mondiale, una volta passato tra i professionisti. Parisi di titoli iridati ne ha conquistati due, in altrettante categorie di peso differenti.
Un precedente illustre
Già, le Olimpiadi moderne. In quelle antiche, infatti, la Calabria se la cavava alla grande, tanto da potersi vantare di aver dato i natali a Milone da Crotone, probabilmente il più grande lottatore della sua epoca. Un uomo dall’appetito leggendario, come Michael Phelps, e che proprio come il plurimedagliato nuotatore statunitense aveva fatto incetta di allori olimpici imponendosi in sette edizioni tra il 540 e il 512 avanti Cristo.
Di omaggi a Milone, però, il mondo è pieno. La Coca Cola gli ha dedicato una cartolina inserendolo tra i grandi campioni della storia delle Olimpiadi. C’è una città nel Maine (USA) che porta il suo nome. Senza contare la statua di Puget al Louvre oppure quelle nello stadio di Olimpia e nello stadio dei Marmi a Roma. O, ancora, il fatto che a citarlo nelle loro opere ci siano autori del calibro di Shakespeare, Rabelais, Dumas padre e Balzac. E come si chiama uno dei principali appuntamenti per gli appassionati di lotta greco-romana? Trofeo Milone. Giovanni Parisi, invece, di tributi, specie in Calabria, non ne ha mai ricevuti abbastanza. Né dopo la morte, sic transit gloria mundi, né quando la sua stella brillava sotto i riflettori al centro del ring.
Da Vibo a Voghera
Giovanni Parisi nasce a Vibo il 2 dicembre del 1967 ma l’abbandona ancora bambino; sua madre Carmela vuole lasciarsi alle spalle un marito uccel di bosco e cercare fortuna al Nord. Ci prova prima a Pavia, poi a Voghera. Carmela non gode di buona salute ma si ammazza di lavoro, dovunque lo trovi, per sfamare i suoi tre figli. Gli anni ’70 passano e Giovanni ha sempre meno voglia di trascorrerli tra i banchi. Irrequieto, diffidente, non esattamente il beniamino di tutti a causa delle sue origini e delle ristrettezze economiche. Una volta salta fuori dalla finestra della scuola (per fortuna la classe è al pian terreno) per darsi alla fuga. Il modo di scappare da quella vita lo trova nella boxe, sport di poveri per poveri.
È il 1980 quando in palestra arriva quel ragazzo mingherlino, meno di cinquanta chili su un corpo sempre pronto a scattare. L’allenatore Livio Locarno, che negli anni successivi diviene quasi il padre mai avuto prima, lo chiama “nano” per temprarlo. Ma capisce presto che ha davanti uno di quei treni che, se va bene, passano una volta sola nella carriera. Il “nano” in realtà è un gigante. Di più: un campione. È velocissimo, disposto al sacrificio, con tanta fame e nessuna paura. E ha qualcosa che non tutti i pugili, anche tra i migliori, hanno: un pugno da K.O.
Lacrime e ananas
L’unica cosa che sembra poter fermare il ragazzo è l’ansia, che gli manda lo stomaco in subbuglio a ridosso di ogni incontro. Risolverà tutto con un semplice cracker mandato giù negli spogliatoi prima di infilare i guantoni. Da quel momento la strada per Giovanni Parisi si mette in discesa. Nel 1985 è campione italiano tra i piuma, titolo bissato un anno dopo tra i leggeri. Quando le Olimpiadi di Seoul si avvicinano, però, si rompe il metacarpo di una mano. È fuori dalla selezione azzurra in partenza per la Corea del Sud.
Ritroverà un posto solo grazie a un infortunio identico al suo occorso al collega Cantarella. Ma Franco Falcinelli, il selezionatore della delegazione italiana, non vuole che partecipi nella sua categoria abituale. Per il c.t. la concorrenza lì è troppa, Giovanni Parisi deve dimagrire per tornare tra i pesi piuma, pena l’esclusione dalla squadra. Inizia una corsa contro il tempo: sacrifici, sudore e tonnellate di ananas per tenersi in forza ma perdere peso. Poi, improvvisa, la morte di mamma Carmela. Parisi, distrutto dal dolore, si mette in testa di dover vincere per lei, per restituirle tutto quello che gli ha dato. E si presenta puntuale e in forma smagliante all’appuntamento con la Storia.
Il bambino d’oro: Giovanni Parisi diventa Flash
I Giochi dell’88 rappresentano una delle pagine più buie di quel grande romanzo sportivo che è la Boxe. Restano negli annali per l’oro scippato al leggendario Roy Jones Jr, che dopo aver massacrato per tutto l’incontro il suo avversario Park Si-Hun, vede i giudici assegnare il match all’incredulo e malmesso pugile di casa. Ma nessuno può battere Giovanni Parisi, non ancora ventunenne, in quei giorni.
Il vibonese elimina gli avversari uno dopo l’altro. E quando sale per l’ultima volta sul ring gli bastano un minuto e 41 secondi per chiarire chi sia il campione. Il suo sinistro d’incontro si abbatte come un fulmine sul romeno Daniel Dumitrescu, che non riesce a rialzarsi. Con quel pugno a velocità supersonica Parisi fa suoi l’oro e un soprannome che si porterà appresso per il resto della carriera: Flash. Giovanni festeggia con una capriola poi le prime parole, i primi pensieri, sono per Carmela. E da quel giorno ogni volta che entrerà tra le sedici corde avrà al collo una mezzaluna d’oro su cui ha fatto incidere il nome della madre e la scritta “Seoul 88”.
Flash in America
È ora di passare tra i professionisti. E Parisi anche lì fa scintille. Il primo incontro senza caschetto lo disputa nel 1989 proprio in Calabria, nell’ex Cgr di Melito Portosalvo, a rimarcare il legame indissolubile con la sua terra natia. Tre riprese e l’americano Kenny Brown finisce K.O.
Il titolo mondiale, invece, se lo aggiudica nella sua città d’adozione: il 25 settembre 1992 a Voghera manda a tappeto Francisco Javier Altamirano. La cintura di campione del mondo Wbo dei pesi leggeri è sua. La difende due volte, poi decide di lasciarla per passare tra i superleggeri.
Vuole l’America, si trasferisce lì, entra a far parte della scuderia di un altro mito della boxe (e della truffa): Don King. Il promoter dai capelli elettrici in quegli anni è il dominus della Noble art e gli organizza la sfida dei sogni: a Las Vegas Giovanni Parisi proverà a strappare la cintura Wbc nientepopodimeno che a Julio Cesar Chavez. Il Toro di Culiacàn si rivelerà un osso troppo duro per lui. Parisi resta in piedi fino all’ultimo, ma la sconfitta ai punti è l’unico verdetto possibile. L’appuntamento col secondo titolo mondiale, però, è solo rimandato.
Giovanni Parisi torna in Calabria: la bomba a Vibo
Parisi torna in Europa e nel 1996 a Milano si prende la cintura Wbo dei superleggeri sconfiggendo il portoricano Sammy Fuentes. Decide di difenderla nella sua Calabria, in quella Vibo che ha dovuto lasciare da piccolo. L’accoglienza non è esattamente quella che si riserva al figliol prodigo. Le operazioni di peso si svolgono nell’Hotel 501, ma pochi minuti dopo a due passi dalla hall scoppia una bomba. «È il racket, escluso dall’incontro, che ha voluto farsi sentire in maniera rumorosa? O una premessa estorsiva ai titolari del grande albergo?», chiede Pantalone Sergi dalle colonne di Repubblica. Domande che resteranno senza risposta.
Non è l’unico problema da affrontare per Parisi in quei giorni. Monsignor Onofrio Brindisi, parrocco del duomo cittadino, ha costretto gli organizzatori a spostare l’incontro da piazza San Leoluca alla periferia di Vibo. Secondo il prelato, disputarlo di fronte a una chiesa profanerebbe la sacralità del luogo. «Un’offesa alla cristianità? Spero – commenta Parisi – di far cambiare idea a monsignore. Vibo Valentia è la mia città natale e avevamo pensato di valorizzarla facendo ammirare in televisione le sue bellezze artistiche». Sarà per un’altra volta. Parisi sconfigge comunque l’inglese Nigel Wenton e festeggia tra i suoi corregionali. Sul ring dalle nostre parti, però, non risalirà più.
Il lungo addio
Negli anni a seguire il pugile calabrese difende la cintura altre cinque volte, prima di doverla cedere al messicano Carlos Gonzalez. Prova a riprendersene una un paio d’anni dopo passando tra i welter, ma perde la sfida decisiva contro il portoricano Daniel Santos. Poi i problemi a quella mano che rischiavano di fargli perdere le Olimpiadi dell’88 ritornano, costringendolo a restare lontano dal ring per un paio d’anni. Annuncia più volte il ritiro, poi torna sempre, spinto dalla passione. Ha un’ultima grande chance, prendersi il titolo europeo dei welter contro il francese Frederic Klose. Subisce una batosta, le immagini di suo figlio che piange a bordo ring conquistano le pagine dei giornali. E lui, dicendo addio a quella boxe che gli aveva dato tutto strappandolo alla povertà, dedica al bambino una struggente lettera dalle colonne della Gazzetta dello Sport. È il 2006.
Nemo propheta in patria: la Calabria e Giovanni Parisi
Il 25 marzo del 2009 sulla circonvallazione di Voghera una BMW si schianta poco prima dell’ora di cena contro un furgone. Tra i rottami dell’auto c’è il corpo di Giovanni Parisi. Lì dov’era stato terrone, ora tutti piangono quello che considerano da tempo il loro campione. Danno il suo nome allo stadio e nel decennale della sua morte gli dedicano, col supporto della Rosea, una statua che lo ritrae mentre esce da una pagina del giornale per sferrare uno dei suoi formidabili pugni.
Vibo, invece, fatica a ricordarlo. Ci provano i tifosi, che di recente hanno realizzato anche un bel documentario dal titolo Flash – La storia di Giovanni Parisi, un po’ meno le istituzioni locali. Certo, c’è ancora la decrepita targa che ricorda l’intitolazione di una struttura nel 2011 al pugile scomparso. Deserta la messa celebrata in suo onore nel 2016. A fine 2020 dal Comune arriva l’annuncio che, su proposta del pentastellato Marco Miceli accolta all’unanimità dagli altri consiglieri, una delle tredici “via Roma” presenti in città diventerà “via Giovanni Parisi”. Due anni dopo pare siano ancora tutte e tredici lì. Quella strada, dichiarava Miceli, avrebbe dovuto «essere da esempio e da stimolo per le nuove generazioni vibonesi, affinché credano nei propri sogni, trovando la forza di non mollare mai». Forse conviene la cerchino altrove, a Voghera magari.