Non può esservi storia nazionale senza storia locale. Quella affidata, dalla notte dei tempi, anche a poemi e versi. Una poesia che, nelle molteplici correnti succedutesi nei secoli, ha continuamente rivendicato spazi di libertà nel suo essere polimorfa, sociale, ironica, sagace, sdrammatizzante, strumento di conoscenza dei luoghi e delle persone. Una poesia mai doma, come quella creata da Giovanni Amendola, cantore della piccola comunità di Nocera Terinese.
Giovanni Amendola e la Nocera del Secondo dopoguerra
Nato nel 1934 nel paese in provincia di Catanzaro affacciato sul Tirreno, Giovambattista Amendola, per tutti Giovanni, ha legato la sua intera esperienza esistenziale e artistica alla sua terra traversata dai fiumi Savuto e Grande, sorta sui resti delle antichissime città di Temesa e Terina che non possono non conferirle, tutt’oggi, un’aura quasi mitica.
Ne hanno visti di cambiamenti Nocera e il suo figlio Amendola: la lenta alfabetizzazione, non soltanto in meri termini scolastici, del popolo; il secondo conflitto mondiale; il re-innesco dei dissanguanti flussi migratori mentre altrove esplodeva il Boom economico; la fuga dalle campagne e il popolamento delle marine, con la susseguente creazione dei paesi doppi – quello vecchio in alto, il moderno giù sulla costa –, una sperimentazione politica e culturale che mutò la morfologia della regione e che riguardò Nocera e tanti altri centri calabresi, sia sul versante tirrenico, sia su quello jonico.

I disagi quotidiani e la passione popolare
Fine osservatore dei mutamenti in atto, attraverso il suo dialetto, la lingua delle radici, Amendola ha raccontato in versi le piccole e grandi debolezze dell’umanità, sentimenti comuni a ogni etnia e latitudine.
La poesia di Giovanni Amendola, definita “poetante” perché più musicale ed efficace, si caratterizza per l’insaziabile ricerca della parola, quella più appropriata, quella più giusta, al fine di penetrare a fondo la storia popolare, di stigmatizzare i costumi e cantare le difficoltà quotidiane e le piccole gioie – con le prime che appaiono sempre più rilevanti e insostenibili – di generazioni di noceresi. E lo fa senza ergersi a giudice, ma permettendo al suo autore di partecipare alla passione della sua gente – e di passione, Nocera, col suo secolare rito dei Vattienti, ne sa qualcosa – e i lettori partecipi delle fragilità del poeta.

Giovanni Amendola e il mondo che non c’è più
Nei suoi componimenti, Amendola ha cantato con nostalgia «gli stigmi di un mondo che non c’è più», sorridendo sommessamente dinanzi ai bocconi amari della vita. Ché, come ripeteva sovente con la colorita ma incisiva saggezza degli antichi, «‘u cane muzziche sempre u cchjù sciancatu» (il cane morde sempre chi è più storpio, chi sta peggio). In una sorta di appiattimento antropologico sugli “ultimi” le cui vicende tragicomiche hanno rappresentato un inesauribile bacino in cui placare la sete dell’ispirazione.
Plasmatasi sulla scorta di una prima, scolastica, formazione umanistica affinata negli anni con letture e studi da autodidatta (si autodefiniva un eterno studente e un divoratore di enciclopedie), quella del poeta calabrese è una poetica soltanto all’apparenza semplice, ma che cela un denso sostrato di complessità.
Giovanni Amendola è stato un uomo «dotato di quello strabismo intellettuale necessario a fissare contemporaneamente il locale e l’universale con uguale attenzione e intensità per fonderli nella poesia», sostiene Antonio Macchione, storico medievista con la passione per la letteratura calabrese e curatore de La poesia poetante di Giovanni Amendola (Graficheditore, 2023), opera fresca di stampa dedicata al poeta di Nocera Terinese.
Una sfida tra versi e ironia

«Mettere alla prova la propria capacità di leggere il mondo», ha scritto Silvio Mastrocola, è stata la scommessa poetica di Amendola. Una vera e propria sfida, di superare le diffidenze e fragilità del paese, «di impadronirsi dei suoi meccanismi più riposti, di dragare con cura paziente i fondali della vita sceverando granello dopo granello la sabbia dell’esistenza, lasciando scorrere ciò che nulla può aggiungere al difficile quadro del vivere e trattenendo, invece, i segni più preziosi della vicenda terrena». E come ogni scommessa implica una percentuale di rischio. Il rischio di sentirsi esclusi, emarginati, soli, abbandonati. Però, a ben pensarci, è questo l’humus che favorisce lo sprigionamento della poesia, quella autentica.
Arrivismi, inganni, tradimenti noti a tutti fuorché, come si conviene, al tradito, gravidanze impreviste, espedienti d’ogni genere e altri piccoli casi tipici di ogni civiltà si trasformano nell’immaginario di Giovanni Amendola in stigmi antropologici che sottili stratagemmi letterari fotografano assieme a minuscoli attimi di vita quotidiana, al lavoro o in famiglia; divertissement utili a distrarsi, per non pensare alla fame e alla vita grama.
Ed è stata pure questa cifra della poesia amendoliana: indagare con ironia il tempo antico, non con un approccio vuotamente scherzoso, parodistico o nostalgico, bensì in maniera giovevole a comprendere i cambiamenti avvenuti e quelli in corso, l’omologazione, la corruzione linguistica e dei costumi, il rinnegamento (vissuto con ingiustificata vergogna) del passato e delle differenze.
L’opera di Giovanni Amendola
Nel corso della sua vita spentasi nel 2022, Giovanni Amendola ha ricevuto vari riconoscimenti in concorsi di poesia in vernacolo e ha pubblicato quattro raccolte poetiche: ’A vrascèra (Edizioni Ferraro, Napoli 1985), ’U tilaru (Edizioni ARE, Amantea 1990), ’A pacchiana (Edizioni Sinfonica, Brugherio 2002) e ’U trappitu (Edizioni Sinfonica, Brugherio 2013).
Altri quaderni e altri versi sono invece in attesa di incontrare i lettori, di suscitare in loro emozioni e scuoterne, con la riconosciuta vena graffiante, gli animi.