Giangurgolo, la discussa maschera teatrale “del” calabrese, non ha origini calabresi ma nasce e racchiude l’arco della sua esistenza in scena nel secondo periodo della Commedia dell’Arte napoletana, dal 1615 al 1770. Fino a quando, nel ricostruito Teatro San Carlino, furono bandite le commedie non scritte.
Giangurgolo falso Masaniello di quaggiù
Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, sulla scorta di errate sovrapposizioni interpretative si riscopre Giangurgolo come emblema della tradizione teatrale della nostra regione. E si continua a creare intorno a questo feticcio tutta una letteratura romanzata con la sola regola del “verosimile”, che vorrebbe regalarci un novello Masaniello che si ergeva contro l’arroganza della società spagnoleggiante del ‘700.
Colmare una mancanza
La quasi mancanza di tradizioni teatrali di spessore pare si volesse a tutti i costi colmare con identificazioni incontrollate di maschere e personaggi nati inconfutabilmente in altri ambiti. Un vezzo che mortifica le poche, ma vere, tradizioni nate nelle nostre contrade, spesso reticenti e distratte nell’autoanalisi delle proprie origini.
Anche l’Accademia Cosentina sbaglia
Persino la nobilissima Accademia Cosentina registra una relazione dello stimato scrittore e storico Coriolano Martirano, secondo la quale la maschera di Giangurgolo sarebbe nata a Reggio Calabria nel primo Settecento. Martirano, riconoscendo una sua interpretazione verosimilmente logica di una sibillina affermazione del Bragaglia, il noto critico teatrale incaricato nel 1960 dall’allora Ente Provinciale del Turismo di Cosenza a redigere un trattato sul Teatro Dialettale Calabrese, individuava la maschera come nata dall’esigenza di contrastare con l’arma della satira la pseudo nobiltà spagnoleggiante. Una nobiltà che, cacciata dalla Sicilia dopo la firma del trattato di Utrech del 1713, dilagava e spadroneggiava pomposamente nella città dello Stretto facendo spagnare la popolazione.
Il verosimile di Martirano su Giangurgolo
Bello, se fosse vero. Ma non è così. Martirano ammetteva lealmente e con colta onestà intellettuale di utilizzare il metodo del verosimile nei suoi romanzi. Al contrario di altri che nei loro scritti individuano persino il domicilio di Giangurgolo, come il catanzarese Vittorio Sorrenti che nel suo “Giangurgolo – Maschera di Calabria” lo fa nascere addirittura a Catanzaro.
Il senso giusto dell’affermazione del Bragaglia è che il tipo del calabrese ha dato lo spunto agli autori napoletani dei canovacci del Seicento per creare una maschera grottesca, variante di quella del Capitano sbruffone e vanaglorioso, dal nome composito altrettanto sinistro derivante dai maleauguranti uccelli notturni (gurgolo=gufo, civetta) quindi Gianni, lo Zanni nella Commedia dell’Improvviso, Gian-gurgolo.
Il parere del glottologo John Trumper
Come ha specificato nella sua dotta dissertazione etimologica il glottologo John Trumper intervenendo, tra gli altri, nel secondo convegno da me organizzato nel 1998 sul tema “Giangurgolo, maschera del Calabrese nella Commedia dell’Arte”, sottolineando l’evidente scostamento del gergo usato nei canovacci dal vero dialetto calabrese, e catanzarese nello specifico.
Registrazioni e documenti inconfutabili del mondo del Teatro nelle più prestigiose biblioteche di Napoli e di Roma datano la nascita di questa maschera molti decenni prima. Si conoscono persino i nomi dei primi attori napoletani, come Natale Consalvo e Ottavio Sacco, che la vestirono a partire dal 1618.
La goffaggine del calabrese
Andrea Perrucci asseriva già nel Seicento: «La diversità delle lingue suole dare gran diletto nelle comedie». L’accento calabrese, denominato catanzese, è utilizzato ancor più per irridere la goffaggine del provinciale inurbato, come appariva appunto il calabrese del tempo, abbagliato dal luccichio delle corti reali della “capitale” Napoli. La stessa tipizzazione dialettale dà infatti carattere ad omologhe maschere, quindi a personaggi, come Don Nicola Pacchesicche, un mimo primitivo, cioè chillo malaureio de lo stodente calavrese, piuttosto che il paglietta calavrese, deriso nel suo provincialismo.
Giangurgolo capitano in commedia
La maschera di Giangurgolo, variante di capitano in commedia, ha caratteristiche assolutamente negative, ubriacone, traditore, bugiardo, ladro, spione e infido, e ci sorprenderemmo di tanto masochismo se fosse nata nelle nostre contrade che, al contrario, non ne registrano nessuna traccia, nessuna memoria storica. Questo già nell’800 il Lumini, e dopo anche Benedetto Croce, lo facevano rilevare inconfutabilmente.
Ancor più evidenze documentali appaiono negli esaurienti due volumi “Giangurgolo e la Commedia dell’Arte” del calabrese Alfredo Barbina, direttore dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Italiano Contemporaneo in Roma, editi da Rubbettino. Non meno esauriente è la “Storia del Teatro calabrese” del cosentino Giulio Palange. Le ricerche di questi intellettuali dovrebbero finalmente spronarci alla riscoperta di autori e maschere autoctone che, seppur minori, possono ambire alla rinascita di un vero teatro regionale.
Gli autori locali in ombra
Esistono tanti autori calabresi del Seicento come il Rossi da Cosenza, il Pugliese ed il Quintana da Castrovillari e tanti altri la cui opera è espressa in commedie e satire carnascialesche. Tutti meriterebbero una più ampia diffusione letteraria e rappresentativa. Anziché offuscarli col clamore di una maschera assolutamente minore, e assolutamente non calabrese, come quella del povero Giangurgolo.
Malgrado questo scritto, si imporrebbe di non portarla più agli onori della cronaca con questa o quella tesi circa la sua provenienza. Da operatore teatrale non potrei comunque negarne l’utilizzo che, in quanto maschera, è facoltà e diritto dell’attore indossarla. Ed è facoltà del regista caratterizzarla, augurandoci che non se ne stravolga eccessivamente la tipizzazione originaria.
Rino Amato
scrittore e regista teatrale