Garum di Sibari, la salsa più cara dell’antichità

Scarti di pesce sotto sale essiccati al sole: romani e greci ne andavano pazzi ed oggi quello che un tempo si chiamava anche gáron è tornato di moda sulle tavole. Ma nessuno lo faceva bene come in Calabria, con buona pace di Pitagora che lo disprezzava

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Il garum o gáron, intingolo dal sapore particolarmente aspro, era ottenuto dalla lavorazione di alcuni pesci e utilizzato come condimento in diverse pietanze.
Lungo le coste del Mediterraneo, soprattutto in Libia e Tunisia, esistevano numerose industrie per la preparazione del garum. In genere erano situate vicino al mare. Avevano ampie vasche per l’essiccazione e la putrefazione, ambienti per lo stoccaggio e depositi per la conservazione. Ateneo ci informa che vicino alle isole di Eracle, presso Nuova Cartagine, si trovava la città chiamata Sgombroaria dal nome dei pesci che si pescavano e con i quali si preparava il garón più pregiato.

Garum: una salsa, tante ricette

Plinio scriveva che il garum si produceva facendo macerare nel sale intestini e scarti di alcune specie ittiche. Il più gustoso si otteneva utilizzando lo sgombro. Alcuni, però, lo preparavano anche con un pesciolino poco pregiato che i romani chiamavano acciuga e i greci aphye. Marziale raccontava che per fare il garum si usava un vaso della capienza di tre o quattro moggi e sui pesci si spargeva aneto, coliandro, finocchio, appio, santoreggia, sclareia, ruta, menta, sisimbro, levistico, puleggio, serpillo, origano, betonica e argemonia. I pesci si coprivano con uno strato di sale alto due dita, per venti giorni si rimuoveva l’impasto con un palo di legno a forma di remo. Il liquido che colava, l’oenogarum, era conservato in recipienti di terracotta.

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Garum sul fondo di un’anfora ripescata di fronte all’isola dell’Asinara

Un testo greco ci informa che il gáron (chiamato anche liculme) era preparato con interiora di pesci («massimamente atherine, o piccioli muli, o menule, o licostomi, o altri piccioli pesci»). Dopo averle salate abbondantemente, si tenevano a lungo al sole rivoltandole continuamente. “Invecchiato” dal caldo, l’impasto era posto in un cophino dal quale colava il gáron.

Altri preparavano la salsa mescolando alici (in alternativa lacerti e sgombri) in un vaso in modo da farne un pane e aggiungevano due «sestari italiani» di sale per ogni mozzo di pesce. Lasciavano per una notte il miscuglio nel recipiente, lo esponevano al sole e lo rimuovevano con un mestolo. Una volta fermentato, ad ogni «mozzo» di pesce aggiungevano due «sestari» di vino vecchio.

Nel Geoponica si legge invece che il gáron era prodotto con intestini di piccoli pesci e soprattutto triglie, sardelle e acciughe. Raccolti e messi in vasche, venivano salati ed esposti al sole. Quindi, una volta pronta la salamoia, si filtrava il prezioso liquido con un setaccio e si conservava in appositi contenitori di creta sigillati col coperchio.

Sibari e l’invenzione del garum

Alcuni storici come Lampridio sostenevano che erano stati i corrotti Sibariti a inventare il gáron, salsa schifosa e vomitevole. Ateneo confermava che il liquido, fatto di pesci salati e aceto, era un alimento particolarmente putrido e puzzolente. Per Plinio era una salsa pestilenziale e non poteva essere altrimenti, considerato che era il marcio di materie in decomposizione. Seneca ne condannava l’uso, definendolo preziosa distillazione di pesci corrotti, «salsa melma» che bruciava i ventricoli.

Marziale sosteneva che odore e sapore erano nauseabondi. E, per diffamare un certo Papilo, scriveva che questi, odorando un unguento profumato contenuto in un vasetto, diventava puzzolente come il garum. Apicio, autore del noto ricettario, annotava che la salsa di pesce mandava un «cattivo odore». Tant’è che indicava una serie di accorgimenti per «correggerla» (aggiungere soprattutto miele e gambi di lavanda).mosaico-garum

Un cibo per ricchi

Non siamo in grado di stabilire se il garum fosse un intingolo schifoso o se, come sostenevano alcuni, particolarmente dannoso per la salute. Sappiamo, però, che la salsa di pesce era rara e costosa. Isidoro precisava che il liquamen, prodotto da piccoli pesci messi sotto sale, dal gusto simile a quello dell’acqua marina, era utilizzato dal popolino. Il garum, invece, che richiedeva pesci pregiati e una complessa lavorazione, era accessibile solo ai ricchi. Non a caso, Plinio scriveva che, a parte i profumi, era il liquido più costoso del mondo.

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Quel che resta dell’antica Sibari

Il prezioso gáron dei nobili sibariti probabilmente affermava la diversità nei confronti delle altre classi sociali. La loro egemonia e superiorità si manifestava anche attraverso mode culturali che apparivano bizzarre e insensate. Il gáron a molti appariva una salsa vomitevole e contraria al buon senso comune, ma per gli aristocratici era l’autorità indiscussa della loro classe a sancire che era gustosa e amabile. Seneca scriveva che il palato dei romani si svegliava soltanto davanti a cibi costosi e li faceva costare cari non un sapore straordinario o una qualche dolcezza del gusto, ma la rarità e la difficoltà di procurarli.

Pitagora contro

La dieta dei nobili sibariti, basata su dismisura e stravaganza, era duramente criticata dai pitagorici che predicavano il limite e la semplicità. Il filosofo di Crotone condannava qualsiasi eccesso e raccomandava di non «passare la misura» nel bere e nel mangiare. Porfirio racconta che il filosofo metteva in guardia dall’eccesso del piacere più di ogni altra cosa, perché nessuna passione portava alla rovina e induceva a peccare come la «smoderatezza dal ventre». Incoraggiava i genitori ad alimentare correttamente i figli e spiegare loro che ordine e misura erano nobili, mentre disordine e smoderatezza, turpi. Pitagora ricordava sempre ai discepoli che la terra offriva ogni ben di dio e li invitava a non contaminare il corpo «con pietanze empie». Giambico ci informa che rimproverava duramente quei ricchi proprietari insaziabili che spingevano i cuochi ad inventare «preparazioni culinarie» ricche di «combinazioni di salse» che rendevano l’animo debole e voluttuoso.

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I pitagorici rifiutavano nella loro mensa i cibi elaborati o grossolani. Legavano il buono da mangiare non solo al gusto ma anche alle proprietà degli alimenti per conservare il corpo sano. Ripudiavano soprattutto quelle pietanze che favorivano la fermentazione e compromettevano l’armonia del corpo, quei cibi che generavano flatulenza e provocavano disordine all’organismo. Predicavano che non bisognava eccedere nei desideri e soprattutto quelli per i cibi ricercati, vesti e panni lavorati, abitazioni eleganti e sontuose, arredi preziosi e schiere di servi e schiavi. L’uomo aveva due tipi di piacere: quello che si compiaceva del ventre e i sensi, paragonabile al canto omicida delle Sirene, e quello che si provava per ciò che era nobile, giusto e necessario, assimilabile all’armonia delle Muse.

Garum, la rovina delle poleis

Una vita sobria e sana e una cucina naturale e ordinata avrebbero sconfitto la tryphé (mollezza) che, insieme alla hybris (tracotanza), stavano portando le poleis alla rovina. I pitagorici attaccavano duramente la perversa cucina sibaritica, di cui il gáron era la massima espressione, per richiamarsi a modelli alimentari che avevano da sempre costituito l’identità greca. Plutarco raccontava che i giovani ateniesi condotti al santuario di Agraulo, nella formula di giuramento di fedeltà, alla domanda a quale patria appartenessero, rispondevano: «La terra in cui crescono il grano, la vite e l’olio».

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