Franco Dionesalvi non si è mai pensato intellettuale nel senso ampolloso e ingaggiato del termine. Lo era invece e ben di più nello sguardo sul mondo e nel legame storico-affettivo con la sua città: nessun localismo, nessun souvenir, solo studio, amore, agorà al massimo grado.
È parziario, oltre che impossibile, ricordarlo libro per libro, composizione per composizione, reading per reading. Come per tutti gli scrittori che lavorano da amanuensi la materia della loro scrittura per il filtro dell’ibridazione dei linguaggi, ogni opera è il tassello di un percorso intero ed interiore. Non una scatola chiusa. Quindi, in Dionesalvi vivono tante vene e filoni, tante storie attraverso i suoi scritti rivivono. Le avanguardie letterarie, ad esempio. Senza fare l’archivistica degli stratagemmi semantici, ma investigando il rapporto immediatamente politico-emotivo fra segno e senso. Era uomo del Concilio, pur essendo un bambino nei primi Sessanta, ma gli apparteneva naturalmente un cristianesimo di base, semplice, diretto, dialogico. Ecumenico ed etimologicamente cattolico: persona singolare e universalità collettiva.
Era uomo del ’77, ancora. Non per portarsi addosso le stimmate laiche di un percorso di autonomia (sul quale ormai tutti hanno la loro, tutti ne hanno fatto parte e tutti lo hanno rinnegato), ché anzi le simpatie estetiche e comportamentali di Dionesalvi andavano più agli Indiani che agli Autonomi. Era figlio del ’77 in quella naturale postura antiautoritaria che ti fa capire, volenti o nolenti, la morte di un certo tipo di appartenenze e l’emersione di una soggettività disorganizzata e plurale, oltre certe logiche e chiese, bisognosa, anzi, di nuovi stimoli, nuove istituzioni e -ancora una volta!- nuovi canali comunicativi.
Non si sa come potercelo ricordare Franco Dionesalvi, quale lato debba più prevalere sugli altri: l’amministratore razionale e visionario insieme? Conoscitore dei sistemi locali della cultura europea (come da sua ottima tesi di dottorato) o attivista che apre squarci nuovi e si inventa il festival cittadino che segna una generazione, lontano anni luce da cover e refrain dei decenni successivi? Il romanziere colto, sperimentale, e però legato anche all’abc del romanzo di formazione, alla narrativa come scavo psicologico e percorso di crescita? Il poeta omaggiato a New York o il profeta per un certo periodo dimenticato in patria? Il corsivista ironico e propositivo o l’uomo di teatro che dal dramma ricavava storie di popolo?
Lo ricordo, allora, al netto di tanti begli incontri personali (che con Franco erano o l’uno a uno o il cenacolo improvvisato con amici di tavolo e conversazione sempre nuovi), per una delle sue ultime antologie poetiche, Base Centrale.
A quel libro è legata una circostanza a suo modo e a propria volta storica. La prima presentazione pubblica a Cosenza dopo la pandemia: chiostro del San Domenico sold out. Cinquanta panche piene e se non ci fosse stato il distanziamento sociale ne avrebbe riempito cento.
Non credo né mai crederò a provvidenzialismo alcuno: ci sono artisti, anche nel campo figurativo, le cui ultime opere sono profezie e altri per cui semplicemente non c’è più niente di nuovo da leggere e guardare. Base Centrale è perfettamente coerente a un percorso, a una ricerca, a uno stile. E l’autore stesso avrebbe probabilmente avuto difficoltà a superarsi: sarebbe andato, come tipicamente suo, nella direzione opposta a ogni comodità astratta, a ogni sciatteria mentale.
In Base Centrale c’è l’amore, il racconto del disagio, la simbologia religiosa, la denuncia pasoliniana dei tempi disincarnati (ma assai meno cattedratica, perciò più pura), persino le scosse telluriche della pandemia sulla già frantumata socialità industriale.
Consoliamoci: siamo molto meno che a metà strada per riabbracciare compiutamente tutti i temi e slanci inaugurati dall’autore. Uomo di fede, fede in primis nella donna e nell’uomo, come i predicatori in lotta di un millennio addietro, potrebbe dirci allora: non è che l’inizio. Figli di un umano non ancora nato e a cui non verrà impedito di vedere luce.
Domenico Bilotti
Docente di “Diritto delle Religioni” e “Storia delle religioni”, Università Magna Graecia