San Giuseppe&Co: Cosenza e la sua fiera a (cacio) cavallo dei secoli

Vagabondi, tarantolati, abili venditori e l'immancabile formaggio. La città che si trasformava in un grande mercato dove era possibile comprare di tutto, ma anche essere raggirati con estrema facilità. E spesso erano pure botte da orbi

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La Fiera di San Giuseppe è un appuntamento storico per Cosenza e non solo. E, dopo la pausa imposta dalla pandemia, rispunta la possibilità di rivederla in città, seppure a fine aprile. In passato i paesi della Calabria non erano autosufficienti: non consumavano tutto ciò che producevano e non producevano tutto quello che consumavano. A parte quei fortunati che possedevano un pezzo di terra, la maggior parte degli abitanti comprava nei mercati e nelle botteghe legumi, frutta e verdura oltre che olio, pasta, farina, baccalà, stoccafisso, sarde salate, formaggi e salumi.

In ogni centro vi erano negozi, forni, trappeti, botteghe e rivendite nei quali acquistare derrate alimentari. Nella Calabria Citeriore del 1826 vi erano 52 acquavitaj, 48 arancisti, 3 biscottieri, 25 caffettierj e sorbettieri, 65 venditori di foglia, 159 fornai, 38 fruttajuoli, 47 venditori di generi al minuto, 45 liquoristi, 75 maccaronaj, 203 macellaj, 386 molinaj, 391 negozianti, 168 panettieri, 541 pescatori e pescivendoli, 324 pizzicagnoli, 164 speziali, 180 tavernarj, 185 veditori privilegiati e 29 verdumaj.

La fiera? Un privilegio

Le fiere costituivano un importante momento di scambio dei prodotti ma le autorità rilasciavano la «concessione sovrana» con «prudente moderazione». Le comunità che avevano avuto tale privilegio non volevano che se ne celebrassero altre nei paesi vicini e ciò suscitava malcontenti, proteste e divisioni.

Nel 1836, il sindaco di San Lorenzo Bellizzi scriveva sulla necessità di liberalizzare le fiere: «Se è vero che ogni terra non produce ogni cosa, e che ogni terra è abbondante di qualche cosa, il commercio è il mezzo efficace a mettere l’equilibrio fra il soverchio e il necessario». E un suo collega qualche anno dopo aggiungeva: «L’esperienza ha dimostrato che le fiere producono degli evidenti vantaggi al commercio, una delle principali risorse della ricchezza dei popoli, mentre donano il mezzo a realizzare ed estrarre i generi indigeni».

Abuso di potere

In occasione delle fiere, che duravano in genere due giorni, le Università facevano costruire baracche per esporre le merci e, per garantire l’ordine pubblico, nominavano dei “mastrogiurati” i quali erano spesso contestati dai rivenditori.

Nel 1476, i mercanti cosentini, ad esempio, protestarono vivacemente contro il mastrogiurato perché durante la fiera della Maddalena commetteva ogni sorta di sopruso: «Considerato lo Mastrogiurato de dicta Città have plenaria iurisdictione in lo tempo e la fiera che si dice Madalena, de cognoscere contra de qualsivoglia persona, de qualsivoglia causa et allo presente se alcune persone che, intra et fora delo Reame haveno ottenuti privilegij de vostra Maiesta, che siano exempli dela iurisdictione de dicto Mastrojurato per la qualcosa commectono multi delitti et insulti, et passano senza punizione, de che soleno evenire multi scandali in preiuditio dela dicta iurisdictione et dele persone offese, et per questo se degni vostra Majesta che dicto Mastrojurato possa gaudere sua iurisdictione secondo è solito et consueto, non obstante ditti privilegij de dicta exemptione concessi».

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Federico II di Svevia istituì l’antica Fiera della Maddalena a Cosenza che poi divenne Fiera di San Giuseppe

Squadra antitruffa

I gendarmi dovevano controllare soprattutto che durante le fiere non si verificassero frodi ai danni dei consumatori. Gli intendenti sollecitavano i controllori a punire senza indugio chi vendeva cibi immaturi, grani infraciditi, pani manipolati con sostanze nocive, pesci freschi e salati putrefatti, carni di animali estinti per malattie e oli e vini adulterati. Alcuni macellai, vendevano carne di animali morti naturalmente che, secondo i sanitari, provocavano gravi malattie fra cui antraci, bubboni e «cocci maligni»; avidi fornai facevano pane con farine scadenti o marce e utilizzavano ogni cosa per accelerarne la fermentazione, renderlo più poroso, soffice e durevole, farlo diventare più bianco e pesante; tavernieri senza scrupoli per aumentare la quantità del vino aggiungevano acqua e per mutare il colore, migliorare il sapore, favorire la conservazione e occultare i difetti introducevano nelle botti «droghe malefiche».

Botte da orbi

Oltre che impedire frodi e furti le guardie dovevano prevenire o sedare le frequenti risse quasi sempre dovute all’eccessivo consumo di alcol. Nella fiera di Castrovillari, ad esempio, la tranquillità della fiera era interrotta «dall’unione di persone di molte comuni e di provincie diverse che per le contrarie abitudini o per stravizzi, causati dall’opportunità della fiera spesso apportano disordini e non pochi reati vi consumano». Le fiere erano luogo privilegiato per borseggiatori, mendicanti e ciarlatani come tarantolati e ceravulari che cercavano di raggranellare lecitamente o illecitamente qualche soldo.

Vagabondi e tarantolati

Nel 1664, in un trattato sui vagabondi, Frianoro scriveva che gli attarantati fingevano di essere impazziti in seguito al morso del falangio e, per attirare l’attenzione dei presenti, facevano cose bizzarre mentre i compagni chiedevano l’elemosina. Per rendere più veritiera la loro follia sbattevano la testa, tremavano sulle ginocchia, stridevano i denti, facevano gesti insensati, lanciavano grida strazianti, ballavano disordinatamente e si mettevano in bocca un pezzo di sapone vomitando una gran quantità di schiuma come i cani arrabbiati. Erano dei mendicanti, fanatici e «santicchioni» che ostentavano estasi, catalessi, isterie e varie forme di corea per farsi credere ispirati dal fuoco, eccitare la compassione pubblica e ricevere offerte.

Vecchia raffigurazione di un “sanpaolaro”

San Giuseppe e sanpaolari

I sanpaolari o ceravulari avevano cassette di legno dentro cui mettevano vipere, scorpioni e tarantole e, per destare meraviglia tra gli spettatori, appendevano al collo serpenti e si facevano mordere. Alberti scriveva che trattavano le vipere come fossero uccelletti domestici e, per meglio colorire le proprie bugie, affermavano di essere immuni dal veleno perché appartenevano alla «casa di san Paolo» o «per invocationi di diavoli». Dioscoride sosteneva che i «sanpaolari» fossero degli ingannatori perché prendevano le aspidi con le mani dopo averle fatto addentare pezzi di carne. Vendevano unguenti simili alla teriaca dei medici, facendo credere alla gente ignorante che, spargendoli sul corpo, avrebbero allontanato qualsiasi malore e bestia velenosa.

Mercuri li accusava di essere vagabondi, ubriaconi e puttanieri che rifilavano al volgo farmaci giurando sulla loro efficacia: ciarlatani, buffoni e istrioni raccontavano di avere avuto le ricette segrete dal re di Danimarca e dal principe di Transilvania e il popolo credulone sperperava il denaro acquistando polveri, radici, olii, unguenti, pomate, liquori e sciroppi. Frianoro li catalogava nella categoria dei vagabondi e dei ciurmatori: dicevano di discendere da San Paolo nonostante l’apostolo non avesse mai avuto figli e maneggiavano le vipere a cui era stato tolto il veleno tra lo stupore della plebe ignorante; vendendo pietre miracolose, lamine di metallo, pozioni magiche e cantilene per incantare le serpi raccoglievano danaro senza sottoporsi a nessuna fatica.

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Antica stampa in cui è raffigurata la Fiera di San Giuseppe

La Fiera di San Giuseppe e le altre

Le fiere cosentine più importanti erano quella di San Giuseppe che si teneva il 19 marzo in piazza san Gaetano, quella dell’Annunciata il 25 marzo nel largo San Domenico e quella di San Francesco nei primi due giorni di aprile presso il piano davanti la chiesa. Nella fiera di San Giuseppe si vendevano piante e alberi da frutto, attrezzi agricoli, pentole di rame, vasellame, cordami, cuoio, sapone, lino, lana grezza, biancheria e altri generi. Tra i banchi dei mercanti che provenivano da terre lontane era possibile acquistare anche caffè, the, cioccolata, zucchero, spezie, torroni, confetti, biscotti, liquori, sale, riso e pasta («canaroncini», vermicelli, «maccarroncini», «maccaroni» e «tegliatelle»). Si smerciavano anche ottimi salumi e latticini. Particolarmente diffuse erano le scamozze o scamorze, dalla voce spagnola escamochos, rimasugli di formaggio destinato a fare le pezze grosse di caciocavallo.

Caciocavalli protagonisti delle fiere calabresi

I casecavalli

I casecavalli figuravano tra gli alimenti più richiesti e i mercanti delle varie regioni per venderli dovevano pagare una tassa. I caciocavalli freschi erano squisiti ma quasi tutti si stagionavano e, duri e asciutti, avevano un sapore piccante come il pecorino.
Kashkaval, kashkavat o qasqawal, caci di latte bovino a pasta filata erano prodotti in numerosi centri della provincia e, nel XIV secolo, tra i formaggi preferiti dagli Ebrei della città. Versato in una tinozza di legno, il latte tiepido di vacca si quagliava con presame di capretto affumicato messo in un pezzo di tela e si sbatteva fortemente con una spatola di legno in modo da separare il cacio dal siero. Il formaggio che iniziava a galleggiare si metteva in una tinozza, si versava acqua bollente e si manipolava a lungo con le mani sino a dare la forma di una pera o di un globo con la testa.

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Le tradizionali forme di caciocavallo della Fiera di San Giuseppe a Cosenza

Il balocco dei bambini di Cosenza

I casecavalli, appesi alle travi con una cordicella, erano soprannominati i “caci degli impiccati” ma, secondo l’opinione diffusa, prendevano tale nome perché, stagionavano a coppie appesi “a cavallo” di un bastone.
Ogni produttore dava al caciocavallo forme diverse e il generale francese Griois, in Calabria durante l’occupazione napoleonica, descriveva un formaggio allungato chiamato per la forma «cazzo di cavallo». Con la pasta dei caciocavalli si realizzavano i casocavallucci, opere artistiche destinate al «balocco dei bambini», acquistati soprattutto dalle famiglie agiate: da qui il detto metterse ‘ncasocavallucce, cioè avanzare nella condizione sociale; per il popolino casocavalluccio significava anche capitombolo, poiché i latticini a forma di cavallo mal si reggevano in piedi.

La Fiera di San Giuseppe nel 2010, un videoreportage di Gianfranco Donadio

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