Si può avere il coraggio di cancellare un intero paese, sradicare centinaia di migliaia di alberi per costruire un’acciaieria consci della crisi dell’industria siderurgica e, per giunta, che il progetto non sarà mai realizzato?
Si può, purtroppo si può. Ed è il sunto della storia amara di Eranova, della truffa ordita negli anni Settanta del secolo scorso ai danni della Calabria, una terra fra le più povere del Continente, da sempre subordinata a forze superiori e spolpata dai massicci flussi emigratori; una storia che, se non fosse realmente accaduta, potrebbe apparire un romanzo a metà fra l’umorismo – tendente alla satira – e la distopia.
Una storiaccia che, in effetti, proprio un romanzo ha riportato recentemente a galla, in un momento storico in cui tanto ci si interroga sull’opportunità di certi nuovi mirabolanti progetti pensati per la Calabria, per strappare i calabresi dalle secche dell’“insostenibile” sottosviluppo economico e infrastrutturale e schiudere loro inaspettati orizzonti di benessere.
La vicenda di Eranova, il fu centro agricolo della Piana di Gioia Tauro, rivive nelle pagine di Un paese felice, l’ultima fatica letteraria dello scrittore Carmine Abate.
Eranova, il paese profumato di zagara
Prima che scoccasse l’ora fatale, Eranova era una frazione costiera del comune di Gioia Tauro, distinta dall’inebriante profumo di zagara e dalle distese di vigneti, uliveti e agrumeti che ne tingevano di colori il territorio parallelo alla spiaggia, dirimpetto alle Eolie.
Un luogo paesaggisticamente meraviglioso che era stato fondato nel 1896 da un gruppo di braccianti stanchi di sottostare alla tirannia dei padroni della vicina San Ferdinando. Uomini e donne anelanti libertà, ché “la libertà è tutto nella vita di un uomo, come l’aria che respiriamo”.
Un’aria fresca e pulita che d’un tratto, susseguentemente al famigerato Pacchetto Colombo (dal Presidente del Consiglio dei Ministri Emilio Colombo che lo annunciò) volto ad acquietare gli animi di parte dei calabresi dopo le rivolte di Reggio Calabria del 1970 – causate dalla decisione del governo di conferire a Catanzaro il titolo di capoluogo di regione –, venne inquinata dal limaccio e dai miasmi del denaro, della sopraffazione, del compromesso e degli intrighi politici in nome della parola-bestemmia degli ultimi cinquanta, sessant’anni della storia d’Italia: il progresso.
Eranova: l’origine del disastro
Moti di Reggio e successivo Pacchetto Colombo, dunque. Originano un po’ tutti da lì i mali della Calabria degli ultimi decenni.
Il progetto del quinto centro siderurgico con annesso porto commerciale, di fatti, fu assegnato a Gioia Tauro nel 1972 come compensazione della rivolta reggina. Una assegnazione avvenuta senza una chiara programmazione ma indirizzata principalmente a placare gli spiriti inferociti e diretta a un settore, quello dell’acciaio, già in aperta crisi per via della stagnazione sia dell’edilizia sia della cantieristica – l’acciaieria di Bagnoli registrava perdite paurose e per quella di Piombino si pensava alla chiusura –; una crisi ampliata dopo l’apertura, nel 1965, dell’impianto di Taranto, che deturpò la città sullo Jonio e la sua piana punteggiata da ulivi secolari, da un giorno all’altro bollati come testimoni di un mondo arcaico, inutile cordone con una civiltà contadina da lasciarsi alle spalle senza troppi dispiaceri.
La bella Taranto, abbracciata dal mare e cantata nei secoli da poeti e viaggiatori – Pasolini nel suo viaggio in Italia del 1959 la definì “una città perfetta” –, sparì, lasciando spazio a un’area industriale che spianò per Taranto la strada verso il titolo di città fra le più insalubri del pianeta. Quel precedente, però, non fece squillare alcun allarme alle orecchie turate di una buona porzione dei calabresi e dei governi nazionali e regionali.
Mille miliardi gettati al vento
Appalesatesi presto i primi segni del prevedibile inganno, gli abitanti della città offesa dalla mancata assegnazione del capoluogo, nella cui provincia sarebbe ricaduta l’opera con tutti i suoi utopistici benefici, furono i primi a non mollare di un centimetro affinché il disegno del centro siderurgico della Piana non fosse rimodulato o accantonato. Già in quegli anni settanta, di fatti, era stata stabilita la antieconomicità del progetto dell’acciaieria e delle infrastrutture collegate, con quell’investimento statale monstre di mille miliardi di lire che sarebbe stato impossibile da recuperare, tanto che anche Finsider e Iri avevano consigliato di spostare l’impresa in zone più propense alla sua realizzazione, vale a dire Lamezia Terme e Crotone.
Titolò La Stampa, il 24 agosto 1973: “Reggio vuole a tutti i costi il 5° ‘Centro’ di Gioia Tauro”. Un fermo sostegno da parte della città più popolosa della regione per scongiurare un ripensamento, un cambio di rotta – il quale, chiaramente, sarebbe stato visto come di matrice politica – che, qualora fosse sopraggiunto, avrebbe condotto i reggini di nuovo in piazza per riaprire la tutt’altro che sopita polemica circa il capoluogo.
Una posizione ferrea che assumeva la forma di un ricatto morale a cui lo Stato italiano si piegò ma che di vittime non ne mietette presso i palazzi del potere, bensì soltanto nella disgraziata Calabria.
Soprattutto in quel piccolo centro di Eranova, il paese felice del romanzo di Abate, un libro testimonianza che si fa portavoce di tutte le ingiustizie subite dalla Calabria e dai calabresi, un’opera che, grazie all’incoraggiamento “di un coro di voci veritiere” – come afferma lo stesso autore originario di Carfizzi –, permette di fare emergere una storia drammatica seppellita dalla mala coscienza nazionale e locale.
Il disastroso impatto ambientale
Dietro la promessa da marinaio della creazione di circa 7.500 posti di lavori offerti ai calabresi – molti dei quali, emigrati in Alta Italia, in Germania, nelle Americhe, già pregustavano il sognato ritorno a casa: «Ci sarà il progresso finalmente! Non possiamo vivere solo di zappa e partenze» –, a Eranova si procedette allo sbancamento della spiaggia e all’esproprio di 500 ettari di terreno. Fu un sacrificio che il deputato socialista Giacomo Mancini, fra i maggiori sostenitori dell’impresa fallimentare, definì “minuscolo” considerati i cinquantamila ettari coltivati nell’area.
Si assistette così all’abbattimento impietoso di circa 700.000 alberi – cifra abnorme che pure se non fosse corrispondente al vero dà comunque la misura dello spaventoso abuso perpetrato contro la natura – e della folta pineta marina che riparava dal vento e dalla salsedine i prosperosissimi uliveti, vigneti e agrumeti, quest’ultima coltivazione, ritornata col tempo un fiore all’occhiello della Piana, oggi nuovamente strozzata dalle politiche europee.
Una serie di azioni scellerate che estirparono per sempre il profumo di zagara che contraddistingueva quel tratto della Piana e stravolsero le vite di centinaia di famiglie.
Il polo siderurgico di Gioia Tauro non è stato mai realizzato e il porto commerciale della città – costruito per dare supporto all’acciaieria fantasma inondando l’area interessata con due milioni e mezzo di metri cubi d’acqua – si staglia oggi come unica testimonianza tangibile di quella promessa che cinquant’anni fa illuse per l’ennesima volta i calabresi; un impegno puntualmente non mantenuto dalla Repubblica e che si trasformò in un imponente sperpero di fondi pubblici, nonché in un colossale affare per politici e mafiosi.
Un memento per i calabresi
L’avanzare delle voraci gru, delle ruspe e delle draghe, la lenta e inesorabile cancellazione del paesino di Eranova, le proteste dei pochi eranovesi non lasciatisi incantare dagli unicorni delle favole e corrompere dal dio denaro, il blocco dei cantieri per i ritardi circa l’arrivo degli indennizzi per gli espropri e i trasferimenti verso i nuovi alloggi allestiti presso anonimi quartieri di Gioia Tauro e San Ferdinando.
Sono tutti aspetti e riflessioni che, attraverso la storia romanzata di Un paese felice, Carmine Abate ci racconta, risvegliando il ricordo di una cicatrice mai rimarginata e stimolando il popolo calabrese – cui sovente, nella storia, si è ritorta contro la sua acquiescenza e la sua proverbiale accoglienza – a tenere sempre alta la guardia dinanzi ai canti ammaliatori dei signori del “progresso” e ai nuovi piani di ripresa e “pacchetti” di varia forma e natura che oggi o domani potrebbero essere offerti come manna dal cielo.