Hirayama mon amour. No, quello di Alain Resnais era Hiroshima. Qui siamo nel recinto di Wim Wenders tornato a suo modo al vecchio amore per il maestro Ozu.
Il protagonista di Perfect Days potrebbe essere un alienato di una città di alienati come Tokyo, oppure un monaco buddista (forse meglio shintoista) con la casacca “The Tokyo toilet”. Poi cosa cambierebbe? Nulla. Wenders costruisce un personaggio con un mondo dentro e un passato tenuto a distanza. Noi vediamo solo una vita minima, essenziale, senza troppi fronzoli.
Un uomo che si sveglia al mattino, sbriga le sue pratiche igieniche, apre il portone di casa e guarda subito il cielo. Sorride. E noi con lui. Buongiorno Hirayama san. Inizia il giro dei bagni pubblici della capitale nipponica. Progettati da grandi architetti. E si vede. Chi non vorrebbe pisciare in quello trasparente che si oscura mentre sei in “servizio”?
Hirayama è un homo analogicus in un mondo di zombie pronti ad essere plasmati dall’intelligenza artificiale. Ascolta musicacassette vintage di Lou Reed (Patti Smith e tanti altri). È un grande classico del cinema di Wenders tutta quella musica ignota ai millennial. Poi la nipote del protagonista gli chiede se troverà Van Morrison su Spotify. E allora capisci che non tutto è perduto. Chi può fermare la ruota del rock? Nessuno, dai.
In questa corsa retrotopica Hirayama scatta foto con una vecchia Olympus compatta. Sviluppa le sue pellicole. Ne esce fuori sempre il cielo di quel parco, alberi e foglie. E luce. La storia della fotografia è piena di operazioni del genere. Se penso al cinema mi viene in mente Auggie, il tabaccaio di Paul Auster in Smoke di Wayne Wang.
Wenders si è sempre interessato alla deriva delle immagini. Resta a futura memoria l’esplosione di telecamerine per filmare e firmare (che poi è peggio) tutto il filmabile in Lisbon Story. La story di questo ultimo film è negli occhi di Hirayama. Ci dice qualcosa da conservare con cura. Erano solo Perfect days e non ce ne siamo accorti.