Ecco perché Brunori mi piace ancora di più dopo Sanremo 2025

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Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla.
Da quando me ne ricordo, senza scomodare storiografie che mi sciorinerebbero come da sempre funzioni così, la musica è identitaria, una bandiera tribale. Noi giovani vs genitori e umarell vari, innanzitutto, che all’epoca non avevano etichette stile zeta o millennial, divisi semmai fra quelli che avevano fatto la prima o la seconda guerra, e tutti aspettavano Canzonissima del sabato sera. E poi sorcini, baglionisti e quelli dei Pooh. Canzoni spesso dedicate con tanto amore sulle radio libere da una qualche stella di periferia ad un Marco, anche lui di periferia.

Roba da disimpegnati un po’ coatti per quelli che noi solo cantautori, ma non tutti, perché Battisti è di destra, salvo ascoltarlo di nascosto. Canticchiandolo pure, ma a voce bassa, per placare quel senso di colpa che tutto vede e tutto sa. Per non parlare del dissing antesignano fra Venditti e De Gregori, con relative tifoserie, e tanto di “scusa Francesco” per un lieto fine da amici antichi. Poi, come canta proprio quello di Rimmel, “elleppì” anche lui ormai cinquantino, a un certo punto ti volti a guardarli, quei tuoi anni. E non li trovi più.

Brunori: Sanremo 2025 o Frittole?

Nel frattempo, senza neanche accorgertene, hai perso il contatto, fino allo smarrimento di chi si ritrova catapultato alla Benigni & Troisi nella Frittole del Sanremo 2025. Un mondo dove gli umani, per noi che i Jalisse erano già un’eversione, ma di quelle innocue da sorriso «per pazzi sprasolati e un poco scemi», hanno nomi da esercizio di fantasia un tempo riservato ai pet: Rkomi, Irama, Shablo, e via a chi la spara più sorprendente, fino al Tormento.

So bene, in qualità di sessantenne a rischio ‘signora mia dove andremo a finire’ di dovermi stoppare qui, risparmiandomi tutta la manfrina sulla fenomenologia di costume, ma…
Sarà pur vero che ogni epoca ha le sue liturgie, e che con gli anni capita sempre più spesso che ti frulli per la testa quel ritornello dei Rem che fa «it’s the end of the world as we know it», ma il vizio antico di sentirsi parte di qualcosa non muore mai.

Uno normale

È il bisogno di identità, bellezza, direbbe qualcuno. Già, l’identità, quella cosa che ti fa sentire protetto, al sicuro delle tue certezze quando diventa faticoso inseguire il mondo, e decidi che “sì, io mi fermo qui”.
Ecco perché, dopo questo Sanremo 2025, Dario Brunori mi piace ancora di più, senza che il mio essere “conterroneo” c’entri nulla. «Cazzo, uno “normale”!», ho pensato nel vederlo cantare su quel palco in giacca elegante quanto basta e chitarra! Venghino signori, venghino, non c’è trucco e non c’è inganno!

Anche qui, so bene che nel dizionario, peraltro molto a rischio, woke il termine normale è fastidiosamente avvertito come sinonimo di una qualche forma di conservatorismo, e che necessita pertanto di una dichiarazione di accezione. Ebbene, nel mio personalissimo, quanto insindacabile dizionario, normale sta per privo di orpelli ed eccessi, in sintonia con la propria natura, che si esprime senza cedimenti al mainstream. Il che non vuol dire che in quanto artista l’uomo non promuova se stesso, ma in maniera percepita come espressione di un autentico sé. Comunque, roba rara, qui a Frittole.

Tutto ciò confermerà probabilmente da quale parte della storia mi trovi, un vecchio grumpy insensibile all’edonismo griffato a tanto ad apparizione del Sanremo System, con un certo fastidio per gli epigoni a cascata. L’indizio da terzo posto è comunque quello di essere in tanti, non solo televotanti, e certo, mi fa anche molto piacere, come un friccico ner core, l’illusione di essere calabrese come lui.

Attilio Lauria

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