In questa storia sono certi due elementi: lo scenario e uno dei due protagonisti.
Il primo è la Cosenza della seconda metà del ’600. Cioè il capoluogo di una provincia importante del vicereame di Napoli.
Cosenza non è ricca, ma è una meta ambita dei nobili smaniosi di far carriera, che l’hanno trasformata in un loro quartiere-dormitorio. Soprattutto, ha un filo diretto con Napoli e Madrid, perché è città demaniale. Cioè è protetta dalla corona e non è sotto il dominio del solito principe o duca.
Il secondo elemento certo è Gennaro Sanfelice, che diventa arcivescovo di Cosenza nel 1661.
Il terzo elemento è incerto, perché avvolto tuttora in un mito popolare in cui realtà e immaginazione si intrecciano fino a diventare indistinguibili: è Duonnu Pantu, l’altro protagonista.
Sanfelice, un nobile in carriera
Gennaro Sanfelice è un nobile napoletano di grande blasone. È il fratello minore di Giovanni Francesco, duca di Lauriano.
Ma, soprattutto, è il cugino di Giuseppe Sanfelice, che fa una gran carriera nella Chiesa dell’epoca.
Gennaro, forte di una preziosissima laurea in “Utroque” (Giurisprudenza, che allora era il passepartout per il potere e quasi un obbligo per gli aristocratici), arriva a Cosenza nel 1650, come vicario del potente cugino, nominato arcivescovo da papa Alessandro VII.
Poi Giuseppe diventa nunzio apostolico in Germania e Gennaro regge l’arcidiocesi fino al 1661, quando il cugino muore.
A questo punto, il papa formalizza l’attività di Gennaro e lo fa restare a Cosenza come arcivescovo.
Un vescovo progressista
Non c’è troppo da scandalizzarsi per tanto nepotismo, che allora era una prassi socialmente accettata.
Anzi, il nepotismo dell’epoca, esplicito e sfacciato, dà i punti a quello attuale, giustificato con le formule più ipocrite.
Tuttavia, l’arcivescovo Gennaro non è solo un figlio di papà. È un uomo di carattere, che dimostra di essere tagliato per il ruolo a cui l’hanno destinato gli studi e il blasone.
Appena ha le mani libere, Sanfelice mette ordine nella diocesi. Soprattutto, difende le prerogative del vescovo (cioè le sue) e mette un freno alle ingerenze della Santa Inquisizione.
Il suo merito più grande è lo stop alle persecuzioni dei valdesi, che dopo il pogrom di Guardia Piemontese erano proseguite per circa un secolo a San Sisto e a Vaccarizzo.
Come mai uno così tosto diventa una macchietta? Chiediamolo a Duonnu Pantu.
Il prete pornografo
Di Donnu Pantu sono certe due cose: i versi pornografici in vernacolo e la sua zona d’origine, Aprigliano, un paese tra Cosenza e la Sila.
Sulla sua identità storica restano parecchi dubbi, alimentati dalle solite contese tra studiosi, a partire da Lugi Gallucci (il primo interprete che nel 1833 ha messo ordine nella produzione pantiana) per finire con Oscar Lucente, raffinatissimo intellettuale e storico dirigente del Msi, entrambi di Aprigliano.
Per convenzione, Duonnu Pantu è il nome d’arte di Domenico Piro, sacerdote apriglianese morto poco più che trentenne a fine ’600.
Un trio di preti
A riprova che il nepotismo è un doc dell’Italia di allora, anche don Domenico appartiene a una famiglia di sacerdoti: nel suo caso gli zii materni Giuseppe e Ignazio Donato.
I tre, oltre che somministrare sacramenti, sono specializzati in pasquinate. Infatti, sono conosciuti con un nomignolo: gapulieri, ossia criticoni.
Piro, a differenza degli zii, si specializza nella pornografia, che racconta in alcuni poemi (la Cazzeide e la Cunneide) pieni di riferimenti colti e volgarità estreme e caratterizzati da un uso virtuosistico dei versi in dialetto.
Ma c’è di più: Piro è un gaudente e un goliarda a tutta forza, come prova la sua polemica con l’arcivescovo.
Contestatore avant la lettre
Alla base del dissidio tra Piro e Sanfelice – che, da buon napoletano, è piuttosto tollerante – ci sarebbe stato un piccolo tumulto nel collegio del Seminario di Cosenza, raccontato tra l’altro nel poemetto La briga de li studienti.
In pratica, alcuni studenti poveri, costretti ad accontentarsi della mensa, rubano le vettovaglie ai ricchi. Un “esproprio proletario” in piena regola.
Piro resta coinvolto nella bagarre e finisce in cella di rigore proprio per ordine dell’arcivescovo.
La poesia: un’arma per la libertà
La poesia è un’arma potente, sia quando commuove sia quando ridicolizza.
Duonnu Pantu, dopo alcuni giorni di gattabuia, indirizza una supplica (Lu mumuriale) a Sanfelice. L’arcivescovo convoca il giovane prelato e gli annuncia l’imminente liberazione.
Ma la tentazione di fare un’ennesima burla è forte. E Piro non è tipo che sa resistere: infatti, mette sulla porta della cella un cartello con la dicitura “si loca”, cioè affittasi.
Sanfelice non si fa volare la mosca al naso, riconvoca Piro e gli chiede il perché della scritta. «Monsignore, visto che me ne vado, resta vuota, quindi si loca», è la risposta beffarda.
«Bene», replica l’arcivescovo, «ci resterete voi finché non arriverà il nuovo inquilino».
La sfida: prete trasgressivo vs arcivescovo
A questo punto, la sfida entra nel vivo e Pantu gioca un’altra carta. Il prigioniero si è accorto che nel cortile davanti alla cella si radunano tutti i giorni dei ragazzini.
Li chiama, gli insegna dei versi e gli affida un compito: recitarli ogni sera sotto casa dell’arcivescovo.
Eccoli: «Bonsegnù, Bonsegnù, fùttete l’ossa/ lu vicariu allu culu e tu alla fissa/ vi ca si nun me cacci de sta fossa/ iu dicu c’hai prenatu la patissa» (Monsignore, monsignore… se non mi tiri fuori dico che hai ingravidato la badessa).
Dopo alcuni giorni di questo battage, l’arcivescovo cede. Ma non vuole capitolare. E fa una proposta a Duonnu Pantu.
La tentazione più forte
La libertà in cambio di una poesia dedicata alla Madonna. Ma, per cortesia, niente volgarità.
La leggenda narra che Pantu abbia eseguito il compito più o meno alla lettera. Ma di questa poesia resta solo un verso, in cui il Nostro racconta a modo suo la verginità della Madonna: «E nzinca chi campau la mamma bella/ de cazzu nun pruvau na tanticchiella» (ossia: «Finché campò la mamma bella…»). Già: alle tentazioni Pantu non sa resistere.
Ma c’è da dire che l’arcivescovo mantiene comunque la promessa. Ciò fa pensare che, sotto sotto, anche lui sia stato al gioco.
L’ultima tentazione di Pantu
La leggenda attribuisce a Pantu una morte degna della sua vita. O, almeno della sua poesia.
Malato di tisi e agonizzante, il giovane sacerdote sente gli amici e i parenti bisbigliare in attesa del suo trapasso.
Piro si risveglia di botto e chiede beffardo: «Si parrati ’i cunnu miscatiminnici puru a mia» (cioè: se parlate di… fatemi partecipare),
Poi chiude gli occhi e raggiunge Sanfelice, morto due anni prima.