Che poi è facile friggere i cuddrurìaddri a dicembre, quando lo fanno praticamente tutti: è facile come dire che la statua di Mancini non gli somiglia, che i lavori di viale Parco non finiranno mai e che davanti al bar Continental c’è sempre una macchina in doppia fila —almeno due di questi tre assiomi cosentini sono assolutamente veri, peraltro.
Eppure ci sono almeno tre posti di Cosenza (li sveleremo alla fine così siete obbligati a leggere fino in fondo) in cui il nostro fritto tipico fa durare le vigilie non un mese (7, 24 e 31 dicembre, ben più raramente il 5 gennaio) ma dodici mesi, o quasi.
Forse non tutti sanno che anche da febbraio a novembre, in un giorno della settimana fissato solitamente nel venerdì – momento votato al pesce o comunque negato alla carne, di qui forse lo scivolamento semantico alle ricette di mare natalizie e di lì a tutto il resto, fritti compresi – su fogli di carta ‘nzivàti vengono annunciati in vetrina, spesso in incerto lettering tracciato rigorosamente a pennarello, banchetti e pentoloni d’olio che vanno in ferie solo quando il caldo si fa insopportabile anche per i forzati dell’unto e della frissùra.
La stessa cosa accade con le frìttule e gli scarafùagli, in poche e selezionatissime macellerie tipo Pilerio – nomen omen – su via Nicola Serra, zona Loreto, una di quelle botteghe dove al posto dell’insegna c’è una minuscola targhetta di latta con la licenza risalente agli anni ‘50/60. Ma non divaghiamo ché la faccenda è seria.
Il mistero della vecchiaréddra
A Cosenza esiste una vecchietta natalizia più iconica della Befana. Sarebbe stato bello, infatti, se il senso di questo articolo fosse stato “Alla ricerca della vecchiaréddra perduta”: o meglio, bisognerebbe risalire alla sua escalation – da circoscrivere al massimo all’ultimo ventennio – e soprattutto alla ricetta originale.
In assenza di fonti, nel range bibliografico che va da La cucina calabrese in 300 ricette tradizionali di Ottavio Cavalcanti (Newton&Compton, 2003) al formidabile e forse sottovalutato Calabria in cucina di Valentina Oliveri (Sime Books, 2014), abbiamo trovato una flebile traccia della dicotomia forma circolare vs. forma allungata soltanto in un remoto volumetto sulle grandi cucine regionali edito dal Corriere della Sera nel 2006.
Ebbene, in un glossario in appendice, alla voce Crispeddi ecco, pur senza menzione della versione con G iniziale, una distinzione di massima: «Due le versioni di questa preparazione: una salata, fatta con pasta da pane lavorata con strutto fino a ottenere panini allungati, farciti con acciuga dissalata e origano, quindi fritti; e una dolce, preparata con ricotta zuccherata e, una volta fritta, servita cosparsa di zucchero».
Niente di più sulla versione circolare e salata né, soprattutto, sulla genderizzazione – come direbbe Michela Murgia – e sulla connotazione anagrafica imposte a Cosenza alla versione salata e allungata con acciuga. Insomma, per ora la genesi anche etimologica della vecchiaréddra resta avvolta nel mistero, oltre che nell’alone di frittura.
Qualcosa di erotico
Senza avventurarci nella infinita e periodica disputa sulla corretta grafia/dizione del termine maschile (doppia D o doppia L? Serve qualche H?), ma non dopo aver preso posizione optando per la forma basic, diciamo anzitutto che la pronuncia è quella dell’inglese children.
Poi chiariamo una cosa: il cuddrurìaddru – prima ancora della variante vecchiaréddra che è comunque successiva, in virtù di un imprinting tipicamente patriarcale vigente nel mondo bruzio – non è da considerarsi una “devozione” nell’accezione partenopea o comunque meridionale del termine; laddove per “devozione” lì s’intende una tipicità del Natale, ciò che al contrario risulta impossibile nella città blasfema e sboccata dove «rompere la devozione» significa tutto tranne che «rompere una ricetta tradizionale natalizia» (sulla “divozione” nel senso di organo riproduttivo maschile manca un solido corredo filologico, persino nel fondamentale dizionario di Gerhard Rohlfs, il quale su cuddrurìaddru spiegò invece il legame con il greco kollùra = ciambella, nelle varie forme dialettali calabresi che abbracciano diversi cibi a forma circolare, dal pane ai biscotti ai fichi alle focacce e persino ad anelli vegetali o di vimini).
Piuttosto, antropologi del cibo dovrebbero chiarire il capovolgimento concettuale nonché formale in base al quale la versione maschile della ricetta (cuddrurìaddru, di qui in poi solo C, per una questione di comodità) abbia forma circolare mentre quella femminile (vecchiaréddra, V) sia allungata: una specie di teoria lgbtqi+ adattata alla gastronomia, notata anche quando si parla di fico, frutto-non-frutto e per di più transgender (noi dicendo «ficu» bypassiamo eventuali dibattiti colti su fica, fic* o addirittura ficə).
E dunque ritorniamo alla disfida della frissùra, che ne contiene altre minori al suo interno, a partire dall’olio da usare: proviamo a fare un po’ di chiarenza (cit.).
Olio, ingredienti, ripieni
Essendo la cucina e in generale “il mangiare” qualcosa di sacro alle nostre latitudini (un infinito per definire al contrario quanto di più concreto esista, per un cosentino: «Hai portato il mangiare?»), tutto ciò che è contenuto in questo perimetro diventa oltremodo serio, appena un gradino sotto il Cosenza ma uno sopra tutto il resto (donne, famiglia, soldi etc.).
Capitolo olio: l’attualità di questo strano 2022 ci fa impattare purtroppo su prezzi altissimi per gli oli di semi (girasole, arachidi, misti), un tempo considerati “poveri” e oggi con prezzi da Brunello di Montalcino. E allora, con un colpo di reni autarchico-sovranista possiamo optare anche per un extravergine (evo) locale, come giustamente suggerisce Dino Briglio Nigro, vigneron dalla barba marxista famoso per le sue magnum, non nel senso di armi ma di bottiglie di vino: «Olio d’oliva, sempre, almeno a Cleto dove il più povero ha 50 ulivi». Dunque, chi può lo faccia, magari mettendo da parte gli onanismi cerebrali sul celeberrimo e temutissimo “punto di fumo”.
Altro argomento su cui non esistono disciplinari o ricette depositate – se non nelle agende delle cuciniere cosentine, patrimonio (im)materiale Unesco – è il giusto dosaggio di patate, farina/e, lievito, nonché sui ripieni delle V, e quindi alici, ‘nduja o sardella con relative varianti da bancone dai nomi improponibili tipo “pesciolini piccanti”; ci avventureremmo in un campo più minato della carbonara o dello spritz perfetti. Una cosa è certa: meno patate significa spesa più bassa dunque meno materia prima e più farina insomma qualità più scarsa.
A proposito, le patate: ancora ieri un fruttivendolo (zona Sopraelevata) consigliava con sicumera quelle a pasta gialla di Parenti, sfuse, rispetto a più anonimi ed economici sacchetti. Naturalmente la Ipg silana, forte anche del battage pubblicitario nazionale e della massiccia presenza nella grande distribuzione, la fa da padrona.
Su una cosa si può essere invece d’accordo: in fatto di accompagnamento musicale a tema ci sentiamo di consigliare la bossanova di Enrico Granafei, un must che per i cosentini social è paragonabile soltanto al video virale e poeticissimo “pàranu piume” quando si deve commentare l’arrivo della prima neve, magari con tanto di hastag #jarammalidìtta.
Ma ora è il momento di allargare la visuale, fare un passo indietro e alzare un altro po’ la musica, e soprattutto la fiamma.
Cuddrurìaddri per Carlo V
Il panzerotto è il generico del C come la brioscia con la palla lo è del maritozzo. Non solo: visto che il fritto è qualcosa di ancestrale, a Cosenza il tempio del freet (perché non chiamare con questa crasi lo street food fritto? mah) per eccellenza si trova alla confluenza tra Crati e Busento: luogo germinale della città. In principio fu la friggitoria Sasà, tra l’altro uno dei pochi luoghi o forse l’unico dove potete trovare le birre artigianali sanlucidane Gio Bi, si trova nel punto esatto da cui Federico II passò 800 anni fa imboccando il futuro corso Telesio per andare a inaugurare il Duomo, la porta dell’entrata solenne, tre secoli dopo, di Carlo V al quale magari fu offerto un embrionale C (la V ancora non esisteva…) in segno di ospitalità.
Poco lontano, su via Sertorio Quattromani, le narici di un piccolo Stefano Rodotà venivano sopraffatte dalle invadenze olfattive di una arcaica friggitoria sotto il livello della strada, dove anni dopo avrà sede Reda, meta prediletta dei panzerotti-addicted di tutte le età soprattutto a cavallo tra gli ’80 e i ‘90.
Sì, perché i cosentini raramente rinunciano allo spracchio (sottocategoria culinaria del chiurito) del panzerotto: sostituisce in un certo senso la michetta al prosciutto del centro-nord Italia ma anche il morzeddu (letteralmente piccolo boccone) dei catanzaresi, i quali ci scusino anche loro per la forma scelta, con S e senza H.
Una short list minima (10 posti)
Si può alimentare questa dipendenza tutto l’anno in altri luoghi simbolo di Cosenza come La Rotonda sul sagrato di piazza Loreto, mentre simili stand in legno vengono montati nel periodo pre-natalizio come emanazione di pizzerie o bar aperti tutto l’anno (vedi Totò pizza su viale Mancini in zona carcere), U paisanu (via XXIV Maggio) in questi giorni parcheggia un’Ape Piaggio dovutamente carenata in versione friggitrice mobile ma in realtà immobile, e con la fila. Poi meritano una menzione la pasticceria Orrico su viale Cosmai (solo su prenotazione, e quest’anno anche con C e V “sospesi” per l’associazione di volontariato Home odv), l’Arte del pane (via Monte San Michele), il Bronx (via Caloprese – piazza Loreto), Pasti e impasti (ex Pizzami, piazza Europa), Comalpi (via Panebianco).
Infine tra gli eventi interessanti in ambiente mixology si segnala, sabato 10 dicembre dalle 18,30 alle 22, un aperitivo a base di C e V con i distillati dell’Opificio artigianale degli spiriti (via Rivocati) e le creazioni artistiche di Toni Annunziata (La Sal De Color); l’8, il 24 e il 31 dicembre tornano al Gizmo di via Quasimodo a Rende gli Spritzurìaddri (gradita la prenotazione).
Fuori da questa lista, che poteva arrivare tranquillamente a 100, sia chiaro, restano fuori decine di locali e soprattutto uno che il “freet food” ce l’ha nell’insegna: se Siamo Fritti (via Roma) non sforna né C né V lo fa per una scelta di campo, quasi filologica, una citazione uguale e contraria che rende un tributo al compianto Tonino Napoli: al tempo del Pantagruel di Rende, proponeva anzi imponeva ai clienti i turdiddri come dolce fuori dal periodo canonico. «Perché dobbiamo mangiarli solo a Natale?». Un concetto espresso bene in un adesivo che da qualche giorno inizia a occhieggiare sui muri della città: “Cuddruriaddru everywhere”.
Dove trovarlə sempre
Il bar 667 (via Nicola Serra lato piazza Zumbini) è stato tra i primi a sfruttare l’onda lunga, e oleosa, della frittura natalizia sdoganandola presso i fautori del C o della V senza legacci festivi comandati. Alla vecchia scuola appartiene anche il Bar del Moschettiere, mitologico locale in zona autostazione dove potete trovare una delle ultime zuccheriere con doppio cucchiaino e coperchio automatico rimaste in città, o forse in Calabria o Italia (in Europa sarà già intervenuta l’Ue).
Altro luogo dove si pratica il “freet” è all’inizio di via degli Stadi (angolo Città 2000 / San Vito alto) al minimarket Gran Risparmio, uno di quei posti che mantengono il fascino vintage nonostante il recente cappello della Gdo, in questo caso Carrefour Express. Queste segnalazioni risalgono al periodo pre-Covid quindi forse hanno subìto un rallentamento nell’ultimo triennio, ma basta attendere il passaggio della Befana per verificare il primo venerdì possibile se la tradizione continua. Speriamo di sì.
Vecchiaréddre worldwide
Infine, tornando a cosa bere, per fare i toghi potremmo consigliare un pairing con una bollicina (ormai non ne mancano di ottime anche calabresi) che notoriamente «sgrassa», invece optiamo per una birra artigianale o un vino casarùlo mediamente forte e capace di creare un tappeto alcolemico adeguato per i volumi dicembrini, quando un hang-over lungo un mese (7 dicembre / 7 gennaio, quando il mantra al bar torna a essere “Uvucafé?”) vi renderà all’altezza di una sfida con quelle nonnette di Dublino che nel tardo pomeriggio al pub alternano i bicchierini di whisky con le pinte di Guinness. Ma quelle, benché altrettanto meritevoli di rispetto, ci mancherebbe, appartengono a un altro genere di Vecchiareddre.