Tempo fa, in occasione di poco rincuoranti risultati elettorali, un amico mi scriveva «in Calabria il feudalesimo non è stato abolito ma si è semplicemente evoluto». Descrizione indiscutibile. L’irrecuperabilità della situazione è conclamata, a Cosenza come altrove. Basterebbe un cambio di mentalità? E quante generazioni occorrono? Una mutazione genetica vera e propria? Una glaciazioncella riequilibratrice?
Cosenza e la politica
Recentemente, tra le mie tante scherzose utopie politiche (che chiaramente farebbero ridere i miei colleghi giuristi, e quantomeno i costituzionalisti) si affacciava questa: esiste l’Unione Europea? Bene. Ne facciamo parte? Bene. Allora che gli amministratori di ogni Paese siano destinati, a turno e a sorte, e a tempo determinato, ad amministrare un altro Paese anziché il proprio. Vediamo se qualcuno è capace di raddrizzarci. Vediamo se siamo capaci di fare schifezze dove storicamente attecchiscono con più difficoltà (ehm… su questo mi sa che siamo già collaudati). E vediamo se certa mentalità da quattro soldi continua a proliferare. Beaux rêves…
A Cosenza c’era addirittura uno che si candidava giusto perché gli era crollato un palazzo davanti casa. Bisogna arrivare a questo. Alla fine, ma proprio alla fine, qualcosa che smuove il sentire civico si trova. C’era un politicante locale che mi faceva sapere per conto terzi di volermi nella sua lista (a me anonima nullità – specie a Cosenza –, residente da quasi trent’anni in un’altra Regione) per poi parlarmene a quattr’occhi in maniera molto meno che poco rassicurante. Il classico “giro in macchina” di registro mafiosesco, perfetto per un film di Scorsese ma sgradevolissimo per la vita reale.

Cose tipiche e insopportabili
Quest’è, questa è ancora la mentalità. E trent’anni fa la percezione che avevo di Cosenza era addirittura migliore di quella odierna. Sembrava una città almeno familiare, ora pare più volgare, più litigiosa, supponente all’inverosimile, tendenzialmente incapace, con una cultura media di livello piuttosto discutibile. Una città piena di troppa gente che non svolge i compiti per cui è pagata e di disoccupati la cui voce non importa a nessuno. Di finti intellettuali (che spesso gestiscono male tanti soldi veri) che non conoscono quasi mai gli argomenti di cui parlano; di istituzioni assolutamente sorde e autocelebrative (e mi raccomando, per contattare i referenti bisogna scrivere su Facebook, mica sulla PEC istituzionale). Una città di approssimazione, maleducazione… devo continuare?
Mi viene in mente la favolosa poesia di Remo Remotti su Roma (Mamma Roma Addio), in cui il romanissimo attore infilava una dietro l’altra tutte le cose tipiche e perciò ormai insopportabili della Città Eterna. Ecco, lo si dovrebbe e potrebbe fare anche per Cosenza. Ma forse l’elenco sarebbe troppo lungo.
Cosenza dalle mille contraddizioni
«E me ne andavo da questa Cosenza…», comincerebbe così. Da quella Cosenza degli Alimentari e Diversi, dalla Cosenza delle graffe, del càrrefur e dei profìtterol scritti e pronunciati così. La Cosenza del collega che è uscito un momento per fare un’Ambasciata e degli Accademici imbalsamati (immedesimazione nelle mummie?). Degli impiegati entrati con la dueottocinque e degli operatori culturali improvvisati e tendenti alla magniloquenza da quattro soldi (IVA esclusa). La Cosenza del cilicio, dei focolarini, dei numerari e dei soprannumerari della follia. La Cosenza dei laici che votano i cattolici, “sotto il grembiule il cilicio” e un piede furbamente in due scarpe diverse.

Degli editori che editori non sono, dei dilettanti di genio che pontificano di tutto, dalla grafica alla pedagogia, dalla fotografia alla storia, dalla gastronomia alla politica. Dei sedicenti intellettuali in pantaloni di velluto rosso che tentano ridicolmente di imbastire conversazioni a gambe accavallate. La Cosenza del tribunale in cui i giudici devono per forza dire «attesoché» dieci volte al giorno. Dove «il pm nulla osserva». E dove l’avvocato pavido «ricorda innanzitutto a se stesso prima che alla Corte» e poi scivola sulla questione che «ci attaglia», sui «duri di comprensorio» sulla «congerìe», “sul” Zanardelli e sulle “barracche”.
Baracche e corso Mazzini
Già, le baracche… S’è ripulito Gergeri e via Reggio Calabria, ché di pasoliniano c’era già troppo nel centro storico e c’è ancora. E però, più del centro storico, quelle due baraccopoli mi facevano venire in mente un episodio di Dino Risi, Due cuori e una baracca (1973), con Giannini e un’improbabile Laura Antonelli strabica. L’episodio fu una prova generale dell’autore Ruggero Maccari per il successivo film Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola (1976), quello con Manfredi, con tanto di vecchia nonna intenta a fumare la pipa in baracca e ripetizione di identici nomi. Chiusa parentesi. Una volta scesi dalla macchina per dare un’occhiata da quelle parti, lo squittio dei topi sembrava un cinguettio diffuso. Non ho idea di quanti potessero essere.
Quanto a proletariato in via d’estinzione, un certo chioschetto che fa cuddrurieddri e vecchiareddre in una certa piazza della città può offrire veramente il meglio di sé nelle sere d’agosto: ottimo punto di osservazione privilegiato su una certa naïveté genuina, direi quasi “bio”, che si va perdendo. E poi è anche un melting pot di nuovi arrivi: giovani famigliole dell’Est, o indiane, o dell’Estremo Oriente, non ancora contaminate dal bisogno (né dalla possibilità) di fare le vacanze fuori città. Un luogo che mette pace.
Al contrario, su Corso Mazzini tocca fare lo slalom in mezzo a quattro ragazzetti tamarri anziché no, autoctoni, risaliti da qualche traversa un po’ più a valle, km zero, con i monopattini quando va bene ma soprattutto con le bici elettriche dagli pneumatici extra large (perché non si sa mai).
È cambiato anche il dialetto
Ho notato che nel tempo è cambiato pure il dialetto. Più sguaiato, le vocali accentate sono sempre più aperte, spalancate, divaricate, al limite dell’autocaricatura. Una volta il dialetto lo si imparava a scuola, dai compagni di classe, per appuntarsi al petto un necessario attestato di machismo che l’italiano a queste latitudini non garantisce. Il tutto mentre le anziane maestre si ostinavano – mai capito il motivo – a dire «Frìuli», «qualsièsi», «perièdo», «austrièco».
Alle Poste Centrali, invece, due ore di fila sono ottime per l’osservazione delle facce e per capire come mai siamo nel Bruttium: il teatro anatomico dello zoomorfismo.

E non basta l’onnipresente, proverbiale pioggia cosentina, per lavare i peccati di questa città. La pioggia, a proposito… ma è possibile che, appena spunta il sole, mezza popolazione si metta a fare jogging? I commercianti cosentini del settore “abbigliamento sportivo” continuano ad accendere un lume a chi inventò viale Mancini. Da allora, un’impennata inarrestabile nelle vendite di tute e affini. L’estate scorsa, addirittura, avvistato tizio con bastoncini da trekking.
Cosenza da Atene a Sparta
Invece, la Biblioteca Civica restava deserta. Millecento ingressi all’anno quando andava bene (eppure a Cosenza dicono quasi tutti d’essere grandi depositari di cultura, acquisita in chissà quali sudate ricerche) e quando veniva presentato qualche discreto libro, gli invitati dovevano essere trascinati per l’orecchio o, possibilmente, per la gola.

Non è un male esclusivamente cosentino, per carità: l’Italia galleggia sull’ignoranza. La gente, a seconda della fascia d’età, si divide tra giovani sguardi bassi sul cellulare, medi e anziani rimbambimenti tra televisione e social network, commentandosi a vicenda gli aforismi copincollati o le catene di Sant’Antonio. Così passano le vite. Così le vite passano. Facendo cose vuote, in un impalpabile abbrutimento.
Poi ci si sorprende – e nemmeno abbastanza – che la sedicente Atene della Calabria ne sia diventata la mera Sparta.
Miseria e nobiltà
Non solo pigrizia, ma pure vergogna. Piccoli Comuni di tutto il Mezzogiorno sono riusciti negli ultimi decenni a far pubblicare i lavori di qualche studioso locale che ha avuto la pazienza di studiare il Catasto Onciario del proprio paese di provenienza. Brevissima spiegazione semplificata: il Catasto Onciario era una specie di censimento con acclusa dichiarazione dei redditi, redatto nella seconda metà del Settecento, oggi utilissimo per le ricerche storiche e genealogiche. Vi siete chiesti come mai un capoluogo come Cosenza, patria d’arroganza, non ha mai avuto nessuno che ne pubblicasse il relativo Onciario? Ve lo dico io: perché significherebbe mettere alla berlina molta presunta nobiltà ottocentesca e buona parte di una Cosenza oggi apparentemente bene, ma in realtà decisamente parvenu. Ma proprio decisamente.

Proviamo invece a osservare le vecchie foto che venivano scattate automaticamente nei tirassegno dei luna park tra gli anni ’40 e ’60. Provate a non fare caso al tiratore immortalato, al vostro parente che faceva centro. Guardate gli spettatori, perlopiù passanti casuali. Notate la necessaria attenzione che prestano in quell’istante, che li rende tutti involontariamente dei figuranti sbalorditivi, delle comparse straordinarie (anzi meravigliosamente ordinarie). A raccoglierle, ne verrebbe fuori il perfetto teatro umano dell’Italia del dopoguerra. Che era pur meglio di questa.