«Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».
Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.
La Russia di Corrado Alvaro
E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.
Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.
Antifascismo e amicizie
Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.

Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.
Dopo la Rivoluzione del 1917
Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.

La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.
«Una grande scuola di addestramento»
Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse con l’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.

Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.
Corrado Alvaro e la propaganda in Russia
Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.

L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.
Un tour sotto controllo
«A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.

Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.
Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.
Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku
Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.

Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
«Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».
Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia
Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».

I bisogni e le speranze del popolo
Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.

Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki”, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, di aperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.
Memorie da un mondo in costruzione
Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.
Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania
«Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.

Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.
L’odio verso gli occidentali
«I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».
In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.
Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin
Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.

Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
«L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.
Russi e calabresi
Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre.
La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.

E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
«Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».
Contro i totalitarismi

Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.
Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è forte fu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.
Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega
L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.
Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.