Una copia della foto che immortala Ciccilla è conservata nei documenti di Cesare Lombroso.
Il papà dell’antropologia criminale è stato di sicuro incuriosito dalla brigantessa che, grazie al racconto di Alexandre Dumas, è entrata nelle cronache dell’Italia postunitaria da protagonista assoluta.
La calabrese Maria Oliverio, alias Ciccilla (appunto…) vanta un primato: è l’unica donna che può vantare un ruolo di leader nel brigantaggio. Anche più, forse, della campana Michelina De Cesare.
L’esordio splatter di Ciccilla
È la sera del 27 maggio 1862. Maria Oliverio è uscita da poco dal carcere provvisorio, istituito nell’ex Convento di San Domenico a Celico, dov’è stata reclusa per oltre quaranta giorni assieme a Teresa, sua sorella maggiore.

Maria, originaria di Casole Bruzio, cerca di rivedere suo marito Pietro Monaco, latitante da mesi. Lo incontra poco fuori Macchia di Spezzano, dove vive da quando è sposata. Lui non sembra affatto contento di vederla: prima prova a spararle con un fucile, poi di accoltellarla. La giovane fugge e, non potendo rientrare a casa (dove convive anche con la suocera e la cognata), si rifugia da Teresa.
E lì succede l’irreparabile: le due sorelle litigano. Vengono alle mani e poi passano alle armi bianche. Maria ha la meglio: afferra un’accetta e colpisce Teresa 48 volte. Poi prende i nipoti, li affida a sua suocera e si dà alla macchia.
Il retroscena passionale
Perché Pietro tenta di uccidere Maria? E perché Maria uccide sua sorella, dalla quale si era rifugiata? Gli atti processuali, ricostruiti con precisione maniacale da Peppino Curcio nel suo Ciccilla (Pellegrini, Cosenza 2013) rivelano una realtà piuttosto torbida: Pietro è l’amante di Teresa.
Quest’ultima, inoltre, avrebbe diffamato la sorella con Pietro: Maria, a sentir lei, si sarebbe concessa alle guardie durante la detenzione a Celico. Basta questo per scatenare tanta furia omicida? In quel tipo di società, povera e violenta, sì. Ma c’è anche dell’altro.

Il retroscena politico
Pietro nel 1862 non è ancora ufficialmente brigante, anche se scorre già la campagna nella banda di Domenico Straface di Longobucco, detto Palma.
È ricercato perché ha disertato dall’ex esercito delle Due Sicilie per unirsi a Garibaldi e la sua situazione giuridica con gli obblighi di leva non è chiarita.
Il motivo reale della carriera brigantesca di Monaco è la delusione: la distribuzione delle terre, promessa dal Generale, è rimasta sulla carta.
Ciononostante, Monaco avrebbe mantenuto rapporti con Donato Morelli, notabile di Rogliano ed ex cospiratore filogaribaldino. A questo punto, entra in scena un altro personaggio: Pietro Fumel.
Fumel l’ammazzatutti

Bestia nera dei revisionisti antirisorgimentali, il piemontese Pietro Fumel si è guadagnato una fama postuma di macellaio, a volte non immeritata. Militare di carriera e protagonista delle prime due guerre d’Indipendenza nell’Esercito sabaudo, arriva a Cosenza come braccio destro del prefetto Francesco Guicciardi, per conto del quale inizia una lotta spietata ai briganti.
Lo fa con metodi spicci e non ortodossi: dà un’organizzazione militare ai reparti della Guardia Nazionale e mette a ferro e fuoco le campagne, anche con esecuzioni sommarie. I risultati arrivano, ma i mezzi sono discutibili, anche nella mentalità dell’epoca.
È Fumel che fa arrestare Maria e Teresa e le tiene in carcere, per fare pressione su Pietro Monaco. Perché?
Le due facce di Pietro Monaco
Durante il processo del 1864, Ciccilla dichiara di essere stata incarcerata assieme alla sorella per costringere Pietro a costituirsi.
Ma forse la verità è un’altra: Fumel e chi per lui (Morelli) vogliono usare la banda di Pietro, che in quel momento non ha una linea politica, per eliminare alcuni briganti filoborbonici. Tra questi, Leonardo Bonaro, che ha avuto contatti con il generale legittimista spagnolo José Borjes, e Pietro Santo Peluso, detto Tabacchera.
A favore di questa tesi c’è un dato: i due vengono ammazzati poco prima della liberazione delle sorelle Oliverio. Che tornano libere senza che Monaco si sia costituito.
Crimini in gonnella
La carriera di Ciccilla inizia il 28 maggio del 1862 e termina nel febbraio del 1864, quando i bersaglieri la catturano a Caccuri, nel Crotonese, dopo due giorni di assedio, in cui perdono la vita due militari e un guardiaboschi del barone Barracco.
In questi due anni, Maria accumula un curriculum spaventoso: trentadue capi d’imputazione per omicidio, violenze varie, rapine, estorsioni, danneggiamento ed uccisione di animali domestici.

La giovane (20 anni appena nel 1864), riconosce a suo carico solo il brutale omicidio della sorella. Per il resto afferma di essere stata costretta a delinquere dal marito e dagli altri briganti.
Nessuno può smentirla: a partire da Pietro Monaco, sono tutti morti o in galera.
Il colpo di Santo Stefano
Facciamo un passo indietro. Anzi due. Il primo risale al 18 giugno 1863, quando la banda Monaco rapisce due cugini “che contano” a Santo Stefano di Rogliano: Achille Mazzei, ricco possidente e patriota vicino a Donato Morelli, e Antonio Parisio, sindaco di Santo Stefano e nobiluomo (tra l’altro discendente dell’umanista Aulo Giano Parrasio).
I due vengono liberati dopo il pagamento di 20mila ducati, una somma enorme per l’epoca (oltre i 200mila euro attuali). Cosa curiosa, Ciccilla non finisce sotto processo per questo rapimento. Ma dal dibattimento, a carico di altri superstiti della banda Monaco, emergono alcune ambiguità. Monaco, secondo alcuni pentiti, ha rapporti con Mazzei, che lo incarica di altri sequestri.
Non solo: avrebbe colpito, parrebbe su commissione, la famiglia Spadafora, notoriamente filoborbonica…
Il rapimento del vescovo
Il 31 agosto 1863, Pietro Monaco alza il tiro e, con un blitz spettacolare rapisce nove notabili ad Acri. Tra questi, Michele e Angelo Falcone, cioè il fratello e il papà dell’eroe di Sapri Giovan Battista e di Raffaele, maggiore della Guardia Nazionale.
Ma il nome che spicca è un altro: Filippo Maria De Simone, il vescovo di Tropea, a domicilio coatto ad Acri perché antigovernativo. Ovvero, filoborbonico…
Con vescovo sono rapiti due sacerdoti, i fratelli Francesco e Saverio Benvenuto. Ma, quel che è peggio, ci scappa il morto: Ferdinando Spezzano, eliminato subito dopo il sequestro. La misura è colma. Anche per i notabili che proteggono Monaco.
Morte del boss
Pietro muore la notte del 23 dicembre 1863, per mano del suo luogotenente Salvatore De Marco, alias Marchetta.
Marchetta agisce con la complicità di Salvatore Celestino, detto Jurillu (fiorellino) e di Salvatore Marrazzo detto Diavolo. Quest’ultimo, c’è da dire, aveva tentato di avvelenare la banda due giorni prima…
Il tradimento avviene in un essiccatoio per castagne di Jumicella, contrada di Serra Pedace, dove Monaco e Ciccilla si sono appisolati dopo il cenone. La dinamica è semplice e cruda: protetto dai compari, Marchetta spara al cuore del capo e colpisce anche Maria al polso.
Il processo
Le ambiguità del processo sono tantissime. Tra queste, la protezione del generale Giuseppe Sirtori e del giudice di Corte d’Appello Nicola Parisio.
Attenzione ai dettagli. Sirtori, che guida la repressione del brigantaggio in Calabria, è stato un alto ufficiale garibaldino. In tale ruolo, ha guidato Pietro Monaco durante la battaglia del Volturno.
Parisio, invece, è lo zio di Antonio, il sindaco rapito a Santo Stefano.

I due pezzi grossi chiedono la grazia per Ciccilla, condannata a morte dal Tribunale, e la ottengono dal re in persona. Quasi a voler completare un disegno tra notabili.
La fine di Ciccilla
Fin qui la storia della banda Monaco e di Ciccilla.
Maria scampa il patibolo ma deve scontare l’ergastolo. Finisce in carcere a Torino, secondo alcuni nel forte di Fenestrelle, il presunto lager in cui i Savoia avrebbero internato (e, secondo alcuni, sterminato) molti soldati borbonici.
In realtà, l’ipotesi di Fenestrelle come ultima dimora di Ciccilla non regge. Il forte, infatti, non era un carcere, ma un centro di raccolta per militari a cui far terminare la leva nel Regno d’Italia e sede di un corpo “disciplinare”, i Cacciatori Franchi, destinato ai militari più riottosi, anche piemontesi. Non un luogo adatto alla detenzione di donne.

Comunque sia, le tracce di Ciccilla si perdono dopo il processo. L’anno della morte presunta è il 1879.
Maria porta nella tomba i tanti segreti e le ambiguità di due anni terribili, in cui da popolana è diventata, forse suo malgrado, protagonista.