Gramsci, Ionio ed eroina: la sinistra in Rivolta

Breve storia delle radici calabresi della gauche italiana: affondano tutte a nordest della regione. Cioè a destra della mappa geografica. E non solo: i big discendevano tutti da famiglie benestanti o, addirittura, molto ricche, con tanto di blasone

Condividi

Recenti

C’è un filo bizzarro che lega in Calabria il brigantaggio, il Partito Comunista d’Italia, la Resistenza, le Nuove Brigate Rosse e Lotta Continua.
Non ci crederete: l’Alto Ionio cosentino. Che sulla mappa della Calabria è in alto a destra. In questo caso, andiamo oltre l’immagine geografica. Nel Sud profondo è più intensamente vera (e frequente) la regola della Gauche caviar, per cui le figure apicali della sinistra provengono da ambienti socio-familiari vocativamente di destra.

Antonio Gramsci

In principio fu Gramsci

Andiamo con ordine: la famiglia di Antonio Gramsci, si sa (ma mai abbastanza), proveniva da Plataci e qui aveva vissuto per non poco tempo.
L’intellettuale-simbolo della sinistra sbagliava, tuttavia, quando scriveva nelle sue stesse lettere che la famiglia vi fosse arrivata soltanto nel 1821.
Macché Ottocento. Anche i Gramsci – come la maggior parte degli albanofoni calabresi – arrivarono tre secoli prima, durante le massicce e note migrazioni greco-albanesi.
Il suo trisavolo Gennaro (nato nel 1745 circa) sposava da queste parti l’italoalbanese Domenica Blajotta. Il bisnonno Nicola (nato nel 1769) vi moriva lasciando la vedova calabrese Maria Fabbricatore e un figlio, Gennaro, nato proprio a Plataci intorno al 1830.
Detto ciò, Gramsci resta di nascita sarda e forse già suo padre Francesco ebbe pochissimo a che fare con l’Alto Ionio calabrese. Però la suggestione è parecchia: una famiglia benestante e borghese dalla quale scaturirà il padre del comunismo italiano.

Lo stemma araldico su un balcone di palazzo Chidichimo ad Albidona

Chidichimo: dal latifondo ai briganti e poi le Br

Proletari di tutto lo Stivale (o quasi) mossi da chi affondava radici nel notabilato arbëreshë. Come non pensare, allora, agli altrettanto albanesi Chidichimo che proprio in quella zona – tra Plataci, Albidona, Alessandria del Carretto – mettevano le basi del loro incontrastato potere latifondiario?
Vogliamo illuderci che non vi fossero stati legami parentali tra le due famiglie? C’è una montagna di buoni motivi per dubitare. E allora seguiamo in questo filo bizzarro…
Fine Ottocento: una figlia del potente albidonese don Colantonio Chidichimo, la nobile Maria (ometto la sfilza di nomi), diventa consuocera dell’altrettanto nobile Maria Antonia Andreassi di Amendolara.
Maria Antonia Andreassi era la blasonata un po’ ribelle che offrì rifugio e copertura ai complici e ai favoreggiatori della banda del brigante Palma (Domenico Straface) di Longobucco.
Finisce qui? Nemmeno per idea. Le due consuocere diventeranno pure trisavole della sfortunata Diana Blefari Melazzi, più nota ai nostri giorni, ovvero la brigatista che si tolse la vita a quarant’anni, tormentata per altri e molteplici motivi personali e tare antiche, mentre si trovava in carcere per l’omicidio di Marco Biagi.

Diana Blefari

Da Ferruccio Parri a Carlo Rivolta

E la Resistenza? Eccola: il nonno della povera Diana aveva una sorella che divenne nientemeno consuocera di Ferruccio Parri.
Ma si può fare di meglio. Ad esempio, chiarire il nesso con Lotta Continua. Torniamo alle due antiche consuocere: la Chidichimo era anche sorella del bisnonno del compianto Carlo Rivolta, classe 1949, la penna più brillante di Lotta Continua.
Qui però fermiamoci un attimo. Altro che origini altolocate in capo a Gramsci… Carlo Rivolta fu l’ultimo rampollo – sfortunatissimo anche lui, per carità – di un piccolo impero fondiario di cui forse, avrebbe dovuto (e certamente potuto) cogliere assai più frutti. Su di lui sono stati scritti saggi e girati dei film. Tuttavia, secondo l’opinione di chi scrive, sembra un uomo dalle occasioni mancate o, meglio, sfruttate malissimo.
Di famiglia più che benestante (la madre era Isabella Chidichimo, già proprietaria anche della meravigliosa Masseria Torre di Albidona, il padre un ex repubblichino), Carlo Rivolta abbandona gli studi universitari per entrare – grazie all’intervento di sua madre – nell’ufficio stampa di Giacomo Mancini, intorno al 1969.

Carlo Rivolta

Carlo Rivolta e l’eroina

Di lì a Paese Sera e di testata in testata. Sempre con il fare da bohémien onnipotente che lo contraddistingue: capelli lunghi, salopette, zoccoli di legno, orecchino, musica reggae, soggiorni al Chelsea Hotel di New York (nella stessa camera in cui Sid Vicious aveva ucciso tre anni prima la fidanzata) e cani presi in vacanza a San Francisco (optional obbligatori di una Plymouth Satellite station wagon lì acquistata). Ma anche casa ai Parioli, grossissime motociclette, una Citroën DS blu (con la quale per sbaglio investe un tizio che muore sul colpo) e pistola Beretta (perché, diceva, «con i compagni non si sa mai»).

Scrive per Il Manifesto e, ancora giovanissimo, approda – con un contratto privilegiato – a La Repubblica e infine a Lotta Continua. Eppure è ritenuto di estrazione troppo borghese per l’estrema sinistra, e troppo estremista per i moderati. Carlo Rivolta si lancia così in una lunga inchiesta nel mondo dell’eroina, vissuta in modo tanto zelante da restarne vittima. Lasciò un racconto straziante, di un viaggio suo e della compagna Francesca Comencini (sì, la zia di Carlo Calenda), a Fasano nell’estate del 1981, in cerca dell’eroina da portarsi a casa.

L’articolo di Rivolta sul sequestro Moro per Repubblica

Radical chic nella masseria di Rivolta

Per capirci, nella masseria di Trebisacce, dove avevano lasciato Deaglio e Capuozzo e dove un altro loro amico morì per le esalazioni di gas in una delle antiche casette. Francesca lo ricorderà in un film non proprio straordinario, Pianoforte.
Morire a 31 anni quando hai il mondo nelle mani non è simpatico ma nemmeno furbo. Ora, un giudizio sulle sue qualità di giornalista? Difficile formularlo. Detto ciò, di Carlo Rivolta si può leggere tanto e niente parrebbe essere questa gran rivelazione.
Meglio sospendere ogni valutazione. Forse la cosa migliore è quella che il tempo (solo lui?) non gli permise di portare a termine, cioè quel suo vecchio progetto, sul modello di Vincenzo Padula, ma cent’anni dopo, e mai messo in piedi: “Il Catalogo dei cambiamenti del Sud”, una specie di Michelin del sociale. Peccato, Carlo. Peccato.

Sostieni ICalabresi.it

L'indipendenza è il requisito principale per un'informazione di qualità. Con una piccola offerta (anche il prezzo di un caffè) puoi aiutarci in questa avventura. Se ti piace quel che leggi, contribuisci.

Iscriviti alla Newsletter

Ricevi in anteprima sul tuo cellulare le nostre inchieste esclusive.