Ruffo: lo sterminatore rosso che vien dalla Calabria

La strana parabola del cardinale di San Lucido che represse nel sangue la Repubblica napoletana: dopo la condanna degli storici e la polemica di Mancini, iniziò la riabilitazione, grazie anche a un certo revisionismo. Ma le ombre restano e sono tante

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Condottiero, politico, economista e… massacratore. Nel lontano ’84 la controversa figura di Fabrizio Ruffo, il cardinale che soffocò nel sangue la Repubblica partenopea, fu ricordata a San Lucido, paese natale dell’aristocratico, in un convegno, a cui partecipò anche Giacomo Mancini.
In quell’occasione si presentò il romanzo storico Rosso cardinale, del giornalista inglese Peter Nichols, che ritraeva a tinte fosche il porporato.

Mancini contro il cardinale Ruffo

Giacomo Mancini fece un intervento accalorato, in cui evidenziò le nefandezze della spedizione di Ruffo e lo definì «un macellaio».
Tra gli ospiti c’era Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli che non fu da meno del politico: «L’esortazione che io faccio è che mai sorga un monumento al cardinale Ruffo in questa piazza. Se mai, un monumento ai martiri del ’99».

La lapide della discordia per il cardinale Ruffo

L’appello di Marotta cadde nel vuoto: dopo quindici anni, nel dicembre del 1999, a San Lucido venne scoperta una lapide in memoria di Ruffo.
Fu un piccolo, paradossale primato: il primo tentativo di riabilitazione pubblica del “cardinale rosso”, per di più mentre si svolgevano le celebrazioni internazionali del bicentenario della Repubblica napoletana.
Anche il Corriere della Sera riportò quella “provocazione” in terza pagina, con un titolo significativo: Il cardinale Ruffo, un galantuomo dopotutto.

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Gerardo Marotta, il presidente dell’Istituto per gli studi filosofici di Napoli

L’anatema di Maciocchi

Non basta rileggere il passato più o meno “illuminato” di Ruffo per farne una figura degna di qualunque interesse. Neanche oggi, che va di moda un certo revisionismo.
«Siano maledetti, per sempre, non solo i Borboni, ma tutti i Ruffo, e i loro eserciti della Fede! Essi hanno orribilmente rallentato la democrazia in Italia». È l’anatema scagliato dalla scrittrice Maria Antonietta Maciocchi nel suo libro Cara Eleonora (Milano, Rizzoli 1993), dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, l’eroina della Repubblica partenopea impiccata a Napoli senza mutande in mezzo alla piazza festante.

La responsabilità del cardinale Ruffo

Il cardinale Ruffo ha una grande responsabilità, storica e morale: al servizio di Ferdinando IV di Borbone, fu l’artefice della spedizione che partì da Palermo e si estese in tutto il Sud.
A tale scopo, Ruffo organizzò le bande armate per radere al suolo le città che avevano innalzato l’albero della libertà. Quindi caddero sotto i colpi dei Sanfedisti, che si muovevano sotto le insegne di Sant’Antonio (che aveva spodestato San Gennaro accusato di essere giacobino) popolazioni inermi.

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Peter Nichols, biografo britannico del cardinale Ruffo

I volenterosi macellai del cardinale Ruffo

Una fonte anonima dell’epoca racconta tutta l’efferatezza dei massacri dei masnadieri di Ruffo, definito «un vero bandito», a cui si erano uniti i briganti di Fra’ Diavolo.
Tra i ricordi più forti c’è la Vandea di Altamura. La città pugliese, che aveva aderito alla Repubblica, si difese dall’assedio per quarantacinque giorni e capitolò solo in seguito a uno stratagemma.
Una volta entrate, le truppe diedero luogo all’eccidio: stuprarono donne e suore e fecero esecuzioni sommarie. Lo stesso Fabrizio Ruffo ordinò la fucilazione in piazza di suor Maria Sabina accusata di simpatie per i giacobini.

Cannibali a Napoli

Capitolarono, in Calabria, Crotone, Catanzaro, Cosenza, Paola e Amantea.
A Napoli si narra che i corpi dei giacobini venivano fatti a brandelli dai lazzari, quindi arrostiti e mangiati. I loro teschi diventavano bocce.
Leggere per credere: «I cadaveri che uscivano dalle mani del carnefice li gettavano sui roghi; poi quando erano cotti a loro gusto, ne rosicchiavano il fegato e il cuore, mentre altri soldati, si fabbricavano fischietti con le ossa delle gambe».

Maria de Medeiros è Eleonora Fonseca Piementel ne “Il resto di niente”

Pogrom partenopeo

Il cardinale non risparmiò neanche i prelati. Finirono al patibolo un vecchio sacerdote, Nicola Pacifico, e il vescovo di Vico Equense, Michele Natale, autore di un catechismo repubblicano. Tutta la meglio gioventù napoletana, cresciuta col pensiero di Vico e Filangieri e con gli ardori della Rivoluzione francese, fu sterminata.
Francesco Caracciolo, comandante della flotta napoletana finì appeso al pennone più alto della nave dell’ammiraglio inglese Orazio Nelson.
Per non parlare della fine di un’altra madre della patria: Luisa Sanfelice, protagonista dell’omonimo romanzo di Alexandre Dumas.

Ferdinando I di Borbone, ‘o Re Nasone

Il voltafaccia di re Ferdinando

Anche i massoni pagarono cara l’adesione alla Repubblica: tra i perseguitati spicca l’abate Antonio Jerocades, a cui sono tuttora dedicate molte logge, che fu costretto all’esilio. Il fragile esperimento rivoluzionario finì in tragedia. E a nulla valse la “onorevole” capitolazione che Ruffo offrì a Castel Sant’Elmo agli insorti: finirono tutti giustiziati. Infatti, dopo la vittoria re Ferdinando voltò le spalle al cardinale e calpestò gli accordi di resa da lui siglati con i giacobini. E da allora per il cardinale carnefice cominciò il lento declino.

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