Uno dei motivi che spingeva i viaggiatori a visitare la Calabria era la sua natura meravigliosa. Molti religiosi provenienti dalle regioni del Mediterraneo e dell’Europa si rifugiarono nelle grotte lungo le coste o sulle montagne per vivere in eremitaggio. Nel silenzio delle foreste si avvertiva più intensamente che altrove la presenza del numinoso, la natura sconvolgente avvicinava gli uomini al Padre Eterno, creatore di quel mondo incantevole; la serenità del paesaggio e la dolcezza del clima erano ideali per arricchire la mente e lo spirito.
Dove la natura regnava incontrastata si dimenticavano vanità e orgoglio e si aveva la possibilità di ritrovare i valori autentici dell’uomo persi nel caos della civiltà. Brandon-Albini osservava che in Calabria, lontano dalle brutali e rumorose grandi città, l’uomo poteva togliersi la «scorza» utilitaristica e meschina che sembrava rivestire il cittadino del XX secolo.
Strabone e Sybaris
Strabone scriveva che l’ecista Is di Elice non dovette avere molti dubbi nello scegliere Sibari come luogo dove costruire la città: in una manciata di chilometri erano concentrati mare, fiumi, pianura, colline e montagne. Il territorio era attraversato da due grandi fiumi che avrebbero rifornito d’acqua la città e irrigato i campi; le colline e la vasta pianura avrebbero dato grano, olio, vino, ortaggi e frutta in abbondanza; le montagne vasti prati per i pascoli, selvaggina di ogni specie, pece e legname pregiato per la flotta, costruzioni e riscaldamento. Il mare dove sfociavano i due fiumi, navigabili vicino alla foce, avrebbe favorito la pesca e i commerci con i popoli del Mediterraneo.
Dio fece la Calabria
Per De Custine la natura in Calabria era ancora quella creata da Dio: La natura in queste regioni è armoniosa e solenne come la musica sacra! Le forme regolari delle montagne, la luce, i suoni, le lunghe linee delle coste delineate dalle onde, la grandezza e il colore delle pianure che, da lontano, sembrano la continuazione del mare, tutto quest’insieme così diverso, e dove si riconosce il pensiero di un solo artefice, mi causa un piacere simile all’ascolto di una grande sinfonia. L’orchestra è così perfetta che si crede di udire un solo strumento! Un’idea unica espressa con una diversità infinita: questo è il sublime, il capolavoro del Creatore e delle creature ispirate da lui».
Alla ricerca del vascello di Ulisse
Una volta giunti nella regione, molti viaggiatori si dichiaravano rapiti e sopraffatti dall’emozione di fronte alla rara bellezza dell’ambiente. Quella regione aveva una natura insieme dolce e pittoresca, inquietante e tempestosa. Wey, contemplando lo scenario di Palmi, confessava che quel posto magico ispirava al pensiero di Dio e degli dei, all’Oriente cristiano e alla Grecia classica. Il viandante scrutava le acque alla ricerca della scia del vascello di Ulisse e della nave di Giasone; ascoltava il fruscio del vento che spirava dalle Eolie, ed era come se sentisse il rumore del martello di Vulcano che forgiava nelle sue fornaci le armi del figlio di Anchise. Palustre de Montifaut, guardando il paesaggio di Bagnara, annotava che ogni genere di splendore si trovava riunito in quel punto del globo, sembrava che la natura avesse voluto, con uno sforzo supremo, dare spettacolo di tutto ciò che era capace di produrre.
Da Palmi a Bagnara
E De Custine scriveva: Non credo che esistano al mondo dei luoghi più belli di questa parte delle coste della Calabria. Quando dall’alto della montagna che le separa da Palmi e si procede verso il mare, si scorge Bagnara, la sua posizione e le rocce che la circondano sembrano talmente straordinarie che appena non le vedo più mi riesce impossibile rappresentarmele. Tutto profuma di erbe aromatiche ed è ornato di festoni di liane pittoresche simili a cascate di fiori. Questi grandiosi anfiteatri si innalzano a delle altezze spaventose e niente è più provocante tra il contrasto del lavoro dell’uomo e l’irregolarità di una natura sempre selvaggia, la cui bizzarria è addolcita da una certa armonia che io ho trovato solo nei paesaggi italiani.
Lusso selvaggio e primitivo
Le forme e le luci di questi luoghi sfarzosi sono, in verità, delle “invenzioni” della natura. Sembra che essa non voglia permettere all’uomo di abbellire la terra senza intervenire essa stessa. Perciò, si affretta a mascherare le proprie opere d’arte sotto un lusso selvaggio e primitivo. Sembra che in questa terra la natura, indignata dalle conquiste dell’uomo, si burli della civilizzazione non opponendogli degli invincibili ostacoli, come sulle Alpi, ma abbellendola come nella pittura! Tutto ciò che dico è incompleto o monotono: bisognerebbe vedere il trionfo della luce sul mare i cui riflessi mutano ad ogni istante, come quelli di una lama di metallo esposta ai raggi del sole; bisognerebbe udire il mormorio del vento tra gli alberi.
Anche le zone interne erano affascinanti e incantevoli. Saint-Non, pur vedendo intorno miseria e desolazione, scriveva che la Calabria appariva come una terra promessa vista dal deserto, un’immagine dell’età dell’oro e del paradiso terrestre. C’erano foreste come frutteti e frutteti come foreste e tutto ciò che negli altri paesi avrebbe richiesto dispendio di risorse per abbellire i giardini, in quella terra cresceva naturalmente e con un’armonia sorprendente.
I giardini di Corigliano e dell’Esaro
I giardini di Corigliano sembravano simili a quello delle Esperidi, tanto gradevoli quanto utili, tanto abbondanti di frutti quanto suggestivi. In quelle terre si raccoglievano grano e uva in quantità, c’erano pascoli grassi e fertili, si pescavano pesci in abbondanza e si potevano raccogliere i frutti più deliziosi al mondo.
Lenormant, osservando la vegetazione lungo le sponde dell’Esaro, osservava che in quel posto incantato era possibile ritrovare tutti i miti della cultura greca: «Ammiro l’incomparabile rigoglio e la fecondità della vegetazione nei giardini dell’Esaro. Vi sono terreni che sarebbero un vero paradiso terrestre, se la febbre non venisse a screditarli, rendendoli inabitabili durante un gran tratto dell’anno. Nella stagione in cui vi si può passeggiare senza timore e godere liberamente la delizia della loro fresca verdura, questo sito è davvero incantevole, e si darebbe volentieri per quadro ad un idillio. È proprio nei boschetti di tal genere che la poesia greca si compiaceva di descrivere i trastulli delle Ninfe; è proprio in mezzo ai canneti, come quelli che fiancheggiano il fiume, che essa le faceva spiare nel bagno dai Sàtiri.
Questi canneti, in cui mormora il vento, sembrano scendere in linea retta da quelli che produsse la metamorfosi della ninfa Syrinx, stretta da presso dal dio Pane, che la perseguitava amorosamente; questi allori dal tronco slanciato, si crederebbe volentieri che abbiano avviluppato con le loro cortecce il bel corpo di Dafne, allo scopo di sottrarla agli amplessi di Apollo; queste viti che si arrampicano ai rami degli alberi giganteschi e fanno ricadere intorno ad essi mollemente i loro festoni, rappresentano Erigone, la disperata amante di Dioniso, il corpo della quale si culla in balìa dei venti dopo il suicidio; i vortici fangosi del fiume sono pronti ad inghiottire ancora una volta il bel cacciatore Aisaros, se mai si avventuri imprudentemente nelle sue acque. Qui, come in Grecia, l’aria che si respira è quasi impregnata di mitologia».
Mostri e vulcani
La natura della Calabria attirava i viaggiatori anche per i suoi aspetti mostruosi e terrificanti. Quella terra nascondeva dentro le sue viscere mostri non domati dagli dei che scuotevano il terreno e distruggevano tutto ciò che gli uomini avevano pazientemente costruito in centinaia di anni. De Tavel affermava che la Calabria, il cui suolo si agitava continuamente, riposava sul fuoco dell’inferno: a ogni scossa di terremoto vomitava sulla sua superficie una legione di demoni. Stolberg pensava che la regione fosse al centro del fuoco sotterraneo del Mediterraneo, il cui alito spirava attraverso il Vesuvio, lo Stromboli e l’Etna. La Calabria era come una donna in fiore, ma aveva nel cuore un gigante le cui convulsioni scuotevano spesso la terra! La sua nascita era stata annunciata con violenza dalle doglie della partoriente e queste doglie sconvolgevano la terra da polo a polo!
Lo Stretto e le sue leggende
Il mare dello Stretto era ricco di storie mitiche che narravano di mostri spaventosi, sirene mangiatrici di uomini e fate incantatrici. Non bastavano i devastanti maremoti, le impetuose correnti e le trombe marine a rendere quella zona inquietante e misteriosa. Lo Stretto era uno spazio naturale e insieme soprannaturale, un luogo magico dove avvenivano metamorfosi, incantesimi e prodigi in contrasto con le leggi della natura. Da quando Poseidone aveva separato, con un colpo di tridente, la Sicilia dalla Calabria, sulle opposte rive si erano insediati esseri mostruosi.
C’erano le sirene, che se ne stavano sulla spuma delle onde, sulle spiagge deserte e sulle rocce: belle e perfide donne con la coda di pesce, le chiome d’oro o di colore verde come lo smeraldo, con la loro voce melodiosa ammaliavano marinai e pescatori che, non potendo resistere al fascino della loro bellezza e del loro canto, sbarcavano sulle spiagge, dove venivano fatti prigionieri o divorati. Sempre in quel tratto di mare dimorava la fata Morgana, che aveva il suo castello sotto le acque profonde e, soprattutto nei mesi estivi, si divertiva a fare apparire sulla superficie del mare e nell’aria spettacoli favolosi e immagini bizzarre.
Il nome che più di tutti suscitava orrore nell’immaginario dei viaggiatori era quello di Scilla. Per de Custine non aveva senso arrivare in Calabria senza lasciarsi trasportare dalle onde dello Stretto dove aveva navigato la nave di Ulisse e senza vedere dal mare gli orridi scogli di Scilla. Quella rupe che si elevava maestosa all’imbocco dello Stretto, era un limite che separava la soglia dei mortali da quella degli immortali. Nell’infinità del cosmo occupava uno spazio separato e isolato, posto alle estremità del mondo, un punto fisso che orientava i viaggiatori e li metteva in relazione col soprannaturale.
La natura della Calabria descritta dai viaggiatori è stata mortificata dai suoi abitanti. Già verso la fine dell’Ottocento Wey scriveva che il territorio di Monteleone, soprattutto dove si trovava il «Fondaco del Fico», era una zona infetta e miserabile. In passato, i poeti della Magna Grecia l’avevano celebrato la degna dimora degli dei: la figlia di Cerere vi coglieva il mirto e il melograno e danzava sui fiori e sulle spighe di grano. Da molto tempo quel territorio era preda del soffio velenoso della morte, germogliavano spine, rovi, e l’asfodelo consacrato agli abitanti della Stige. Concludeva dicendo che, se la natura aveva dato un clima salubre e dolce, l’incuria degli uomini e le rivoluzioni politiche, avevano creato delle cloache infette. Questa atmosfera condizionava la moralità degli abitanti e spiegava perché i figli di questa terra, da grandi, diventavano «infidi serpenti».