1943, fuga da Cosenza: il bombardamento tra propaganda di regime e realtà

Le autorità provavano a far credere che tutto andasse bene e la vittoria fosse vicina, ma le incursioni aeree e l'arrivo di migliaia di profughi nei giorni prima del raid dimostrarono quale fosse la verità. E mentre i gerarchi continuavano a mentire, la città si svuotò in cerca di salvezza

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Agli inizi del 1943, incalzati da un possente esercito britannico, i soldati italiani e tedeschi erano costretti a ritirarsi dalla Libia in Tunisia e a Cosenza cominciarono ad arrivare le famiglie emigrate nelle terre dell’impero. In tutta fretta, si erano imbarcate sulle navi per raggiungere Brindisi. Accolti alla stazione i profughi raccontarono spaventati che gli inglesi erano spietati, affondavano le navi con i civili, mitragliavano gli ospedali e maltrattavano i prigionieri. In Russia, nel gennaio 1943, dopo ripetute sconfitte, le truppe italiane si avviavano verso una disastrosa ritirata. I soldati dell’Armir, senza mezzi e senza armi, attaccati costantemente dalle truppe regolari e dai partigiani, fuggivano terrorizzati lungo le steppe innevate. Decine di giovani cosentini e della provincia morivano in battaglia, congelati o nei campi di prigionia dell’Unione Sovietica.

La ritirata delle truppe italiane dopo la disastrosa campagna in Russia

La propaganda fascista

I fascisti cosentini ammettevano che i Russi avevano iniziato una grande controffensiva ma sostenevano che alla fine avrebbe vinto chi a una ferrea resistenza avesse unito «le più pronte doti di recupero». Altre volte affermavano che i bolscevichi erano stati fermati dal glorioso esercito italiano, saldamente schierato, in eroici atti di valore e abnegazione. Per rassicurare la popolazione, pubblicavano sui giornali lettere di combattenti in cui si leggeva che stavano «spezzando le reni» ai bolscevichi. Il soldato Tullio De Simone, ad esempio, scriveva che al fronte russo andava tutto bene, che l’inverno era passato e tutti erano al proprio posto per la vittoria finale. Egli pensava con nostalgia a famiglia, parenti e amici ma, sopra ogni cosa, gli era cara la Patria, per la quale era disposto a combattere sino alla fine.

Aerei alleati sganciano le loro bombe sull’Italia meridionale

La popolazione, tuttavia, non credeva più alla propaganda del regime, perché ormai la guerra si combatteva anche in Italia. Centinaia di sfollati arrivavano a Cosenza. Da Genova, Torino, Milano, Messina, Palermo e, soprattutto, da Taranto e Napoli, bombardate costantemente dall’aviazione alleata. Il prefetto De Sanctis, informava il Ministro degli interni che, a seguito delle incursioni aeree, alla fine del gennaio 1943 erano giunti in provincia 1.249 profughi ospitati in genere da amici e parenti. L’afflusso degli sfollati dalle regioni italiane dava l’impressione che Cosenza sarebbe stata risparmiata da un eventuale bombardamento. E, del resto, le stesse autorità avevano sempre rassicurato che difficilmente il nemico l’avrebbe scelta come meta da colpire: non c’erano fabbriche, depositi militari e scali ferroviari importanti.

Amantea devastata dalle bombe

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Il ricordo delle vittime del bombardamento su Amantea

Il Comitato provinciale della forza antiaerea invitava costantemente la popolazione a rispettare le norme sull’oscuramento. Squadre della Mvsn giravano nei quartieri per assicurarsi che non trapelassero luci dalle abitazioni, ma molti cittadini disattendevano le misure ritenendole inutili. L’atteggiamento generale mutò quando, agli inizi del 1943, alcuni centri della provincia subirono tremende incursioni aeree. Particolare impressione suscitò il bombardamento del 20 febbraio ad Amantea, nel quale morirono 21 persone e centinaia furono i feriti trasportati nell’ospedale del capoluogo. Nel paese marino, sede delle colonie estive, letteralmente sconvolto dall’improvvisa devastazione, durante i solenni funerali la popolazione seguì silenziosa il corteo di camion militari adibiti a carri funebri.

12 aprile 1943, il bombardamento su Cosenza

I cosentini, scriveva il Questore, in seguito al raid aereo di Amantea, erano rimasti profondamente turbati non solo per le vittime e la devastazione, quanto perché la città non aveva rifugi sicuri ed era del tutto impreparata per contrastare eventuali attacchi.
Il 12 aprile, uno stormo di bombardieri Alleati partiti dall’Africa, sganciò i suoi devastanti ordigni anche su Cosenza. L’obiettivo principale era la stazione ferroviaria e tuttavia buona parte del bombardamento colpì il centro urbano provocando la morte di numerose persone, tra cui alcuni scolari.

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Il mobilificio Giuliani distrutto dal bombardamento alleato. Sullo sfondo, il Palazzo degli Uffici nell’attuale piazza XI settembre

I fascisti denunciarono la vile aggressione definendo gli anglo-americani uomini di razza inferiore che, accecati da bieco livore e incapaci di distinguere il bene dal male, si scagliavano contro gente innocente. L’ignobile bombardamento aveva l’obiettivo di deprimere il morale della popolazione ma le bombe che avevano avuto ragione della carne non avevano intaccato l’incrollabile fede nel fascismo. I cosentini avevano reagito all’incursione aerea fornendo prova di fierezza, fermezza, disciplina, abnegazione e solidarietà; con ogni mezzo si erano prodigati per sgomberare le macerie e portare soccorso ai sinistrati e avevano manifestato odio verso il barbaro aggressore che non aveva avuto pietà neanche per i bambini.

Il giorno dopo

Il giorno dopo il bombardamento, fu affisso un manifesto del Federale nel quale si accusavano gli inglesi di avere colpito in maniera spregevole una città indifesa. I degni figli d’Albione avevano sempre disprezzato gli italiani ed erano stati anche responsabili della fucilazione dei patrioti cosentini e dei fratelli Bandiera! Gli effetti devastanti dei quadrimotori avevano provocato il crollo di decine di palazzi e sul selciato erano rimaste numerose vittime incolpevoli ma bisognava stare calmi, stringere i denti e continuare a lavorare: alla fine gli italiani avrebbero vinto la guerra e si sarebbero liberati dalle catene degli schiavisti inglesi! Per la messa dedicata alle vittime del bombardamento, nella navata centrale della cattedrale era stato eretto un catafalco sormontato da una croce bianca e con festoni, ceri e drappi neri.

Il vescovo Calcara, rivolgendosi alla folla silenziosa e commossa, condannò con parole dure la crudele incursione aerea e invocò la benedizione divina sulle vittime. Il giorno prima della cerimonia, il podestà Angelo Ippolito aveva fatto affiggere sui muri della città un manifesto in cui ricordava che i cosentini nel corso dei secoli avevano dato un largo contributo di sangue alla Patria e che, anche durante il bombardamento, dando prova di fierezza e coraggio, si erano stretti intorno al Fascio littorio. I fratelli morti sotto le bombe chiedevano che ognuno restasse al proprio posto e conservasse la calma dei forti, con la consapevolezza di servire la causa della civiltà contro la barbarie, del puro spirito contro la bruta materia. I micidiali ordigni nemici non avrebbero piegato la resistenza di Cosenza, da sempre madre generosa di combattenti ed eroi.

Il panico collettivo durante il bombardamento

In realtà durante il bombardamento, in preda al panico, la popolazione non rispettò quanto stabilito durante le esercitazioni. L’allarme delle sirene suonò in ritardo e le squadre di pronto soccorso si dimostrarono inadeguate. Equipaggiate con tute blu, badili, piccozze ed estintori, non furono all’altezza della situazione. I Vigili del fuoco, che si dettero un gran da fare per estrarre i corpi dalle macerie, erano pochi e scarsamente equipaggiati. Qualche giorno prima dell’incursione, il Comandante aveva avvertito il prefetto che, di fronte alla costante attività aerea nemica, il Corpo non aveva uomini sufficienti per agire in caso di bisogno.

Soldati impegnati a scavare tra le macerie

La Milizia della contraerea, composta da soldati riformati, anziani o disoccupati, non aveva reagito in alcun modo e persino i soldati del presidio militare non avevano dato esempio di coraggio e ardimento durante l’incursione aerea. In libera uscita, al segnale d’allarme, avevano occupato i ricoveri pubblici e, allontanatasi gli aerei nemici, erano tornati in caserma senza prestare soccorso ai sinistrati. Questo comportamento indignò la popolazione e lo stesso federale Rottoli chiese una punizione esemplare. Ne seguì un’inchiesta che coinvolse due colonnelli, anch’essi accusati di avere avuto un atteggiamento passivo durante il bombardamento e di aver protetto con rapporti compiacenti i propri uomini.

Dopo il raid aereo, molti sinistrati furono accolti in capannoni alla periferia della città. Grazie grazie alle offerte di alcuni benestanti, si approntò una mensa per fornire loro un pasto caldo. I senzatetto trascorrevano le giornate nei paraggi delle case crollate, mentre di notte pattuglie di militi e vigili perlustravano i quartieri colpiti per scoraggiare lo sciacallaggio. L’1 maggio, il prefetto De Sanctis scriveva che, nonostante il rilevante numero di vittime provocato dagli ordigni, i cosentini mostravano virile compostezza ed esemplare disciplina, rimanendo tenacemente al proprio posto.

1943, fuga da Cosenza

In realtà, come scriveva il giornale dell’arcidiocesi, per causa degli aerei nemici che continuavano a sorvolare sulla città, si registrò un forte esodo della popolazione verso campagne e paesi vicini. Durante il giorno, Cosenza appariva semideserta, anche perché gli studenti d’ogni grado disertavano le aule e il Provveditore ammetteva che il numero dei frequentanti si era ridotto di circa quattro quinti. In una lettera riservata, il questore di Cosenza scriveva che, dopo l’incursione aerea del 12 aprile, si era verificato un largo esodo dei cittadini nelle campagne e nei paesi vicini. Le linee ferroviarie erano continuamente bombardate, gli aerei mitragliavano ogni cosa e la vita in città era spenta.

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Corso Mazzini semideserto dopo il bombardamento

«Calabria Fascista» riconosceva che i quartieri si erano spopolati ma molti abitanti avevano raggiunto le case di campagna più per desiderio di uova fresche che per paura delle bombe e la maggior parte degli sfollati conduceva vita da «villeggianti»: spendereccia, festosa e brillante! A fuggire erano state soprattutto le famiglie di ricchi proprietari, professionisti, commendatori e pezzi grossi della burocrazia cittadina, gente verso la quale il partito non nutriva antipatia, consapevole che l’umanità non era fatta solo di audaci eroi, ma anche di persone caute, timide e paurose.

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