E anche quest’anno ci si avvicina al 25 aprile, sacrosanto, e alla molto meno sacrosanta fiera dei luoghi comuni. Li hanno preceduti a Cosenza – com’è d’uopo – le commemorazioni per il bombardamento statunitense subìto nella giornata del 12 aprile 1943 e non più grave degli altri alleatissimi bombardamenti su Cosenza – che chissà perché nessuno menziona mai – del 6, del 28 e del 31 agosto, del 3, del 4, del 7 e dell’8 settembre dello stesso anno. Forse quella ricorrenza andrebbe spostata a fine estate, se non stessero tornando tutti dalle vacanze…
Il 25 aprile parte da molto lontano
Se di 25 aprile bisogna parlare, si deve cominciare da molto lontano e fare di tutta l’erba una fascina, senza fare due fasci e due misure. Possibilmente, senza scadere nella ingenua e nefasta distinzione tra belli e brutti: non soltanto commemorazione della Liberazione (variamente attribuita più o meno candidamente a questo o a quel motivo), ma celebrazione di uno spartiacque tra un intero periodo da chiudere e uno da aprire, possibilmente con piede diverso e non col piede di porco come fu vent’anni prima. E questo periodo da chiudere viene da lontano. Viene dalla Marcia su Roma e da ancor prima.
Paolo Cappello, martire socialista
Uno dei primi e più crudi episodi fu, a Cosenza, senz’altro quello legato all’aggressione di Paolo Cappello. Pochissimi giorni fa è deceduta, in Romagna, la vedova senza figli dell’ultimo dei testimoni dell’affaire Cappello. La storia si fa con i documenti, quantomeno con quelli, soprattutto con quelli. Ci mancherebbe altro. Vi sono quelli scomparsi, quelli “alleggeriti”, quelli artefatti, falsificati etc. Poi per fortuna vi sono, talvolta, anche quelle fonti dirette che restano sempre un po’ in penombra, ritenute ancillari e di minor conto. Tutto ciò per dire che il testimone in questione, il cosentino Franz Coppola, raccontò in punto di morte – novantaseienne – la sua versione dei fatti, in fondo poco discordante da quella delle fonti ufficiali.
Era il 14 settembre del 1924 quando venne strappato il garofano rosso dal bavero del socialista Francesco Mauro, col parapiglia che ne seguì e le tragiche conseguenze ai danni del socialista Cappello. Cappelli e coppole: Franz Coppola aveva all’epoca quattordici anni e meno di un anno prima aveva perso la mamma di sangue blu, la nobile Regina Monaco – dei Monaco dello Spirito Santo – che era andata in sposa al non meno nobile Gustavo Coppola, di Francesco.
Alcuni agenti provocatori fascisti aizzarono Franz e altri ragazzini del centro storico affinché infastidissero Mauro e ne strappassero il garofano. Accadde all’altezza della Piazza Piccola e forse, dunque, non esattamente per mano del milite fascista Francesco Bartoli, come le fonti riportano.
Un garofano nel destino
Ignari della valenza politica del gesto, i ragazzi cominciarono a rendersene conto ai primi spari. Se avessero parlato, i mandanti si sarebbero accaniti anche contro di loro e contro le loro famiglie, con esiti probabilmente spaventosi.
Una dinamica non molto dissimile fu, due anni dopo, quella dell’attentato bolognese a Mussolini, laddove fu armata la mano innocente del piccolo Anteo Zamboni, poi fermato dal tenente Pasolini (padre di PPP, per la cronaca) e letteralmente linciato per strada da squadristi e arditi, fino alla morte. Come dei piccoli Anteo fortunatamente mancati, i ragazzi cosentini minacciati di ritorsioni riuscirono a ripiegare con la fuga delle proprie famiglie in altre città, se non addirittura all’estero.
E Franz Coppola? Dopo una lunga militanza comunista e partigiana, segnalata a “dovere”, e poi un barcamenarsi in comparse per Cinecittà (lo si veda, in veste di usciere, con Alberto Sordi ne Il Moralista del 1959), tornò a risiedere a Cosenza ormai vecchio. Morì nello stesso Palazzo Monaco in cui era nato e lì lo ricordo tremolante, sveglissimo e brontolone impenitente. Ironia della sorte, una foto lo ritrae bambino, intorno al ’18, proprio con un garofano appuntato sull’abito. Segni del destino.
Tommaso Arnoni e Michele Bianchi
Sarebbe stata la Calabria in cui durante il fascismo avrebbero spiccato, su tutte, due figure: Michele Bianchi e Tommaso Arnoni (qui in un raro filmato cosentino dell’Istituto Luce).
Il sindacalista Michele Bianchi aveva avuto dapprima un maestro di socialismo come Pasquale Rossi. Si sarebbe poi indirizzato verso un profondo radicalismo attuato in modi anche violenti nell’agitazione delle folle contadine del ferrarese quando lì dirigeva la Camera del Lavoro. Sfuggì alla galera, e seguì nel ’19 Mussolini, ponendosi – con l’83,8% dei voti – alla guida del fascismo in Calabria. Qui riuscì a fare realizzare notevoli opere di bonifica e lavori pubblici, non senza i buoni uffici della sua amante, la marchesa De Seta.
La stessa – mentre il marito partecipava alla costituzione dell’MSI – avrebbe in futuro proposto e ottenuto che il pio don Luigi Maletta diventasse tra il ’48 e il ’51 “assistente ecclesiastico” del MIF, il Movimento italiano femminile «Fede e Famiglia». Lo aveva fondato lei assieme al piucchenero Ezio Maria Gray. Fu il primo e dichiaratissimo movimento neofascista organizzato (con sede furbamente extraterritoriale, in Vaticano), diretto a sostenere anzitutto i fascisti carcerati. E chi l’avrebbe detto?
Il tempo cancella
Ma torniamo a Bianchi. Quadrumviro nei giorni della Marcia, Segretario Nazionale del Partito Fascista, Ministro dei Lavori Pubblici, morì prematuramente e all’apice della carriera. Camigliatello – da ora Camigliatello Bianchi – gli erigeva un monumento. Cosenza gli dedicava un intero rione, quello più bello. Il tempo, chiamiamolo così, cancellò poi entrambe le denominazioni. Così come sempre a Cosenza sarebbero sparite – qualcuna subito, qualche altra dopo molto tempo – le varie
- piazza Italo Balbo (già delle Colonie, poi Eritrea, e soltanto alla fine piazza Amendola),
- piazza Littorio (Villa Nuova),
- via Arnaldo Mussolini (via A. Arabia),
- via Rosa Maltoni Mussolini (via G. Tocci),
- viale Benito Mussolini (viale degli Alimena),
- piazza Predappio (piazza P. Scura),
- via Axum (via C. Marini),
- via Cirene (via A. Sensi),
- via Bengasi (via R. Caruso),
- lungobusento Tripoli (via A. von Platen),
- via Massaua (via P. Perugini),
- via Asmara (via F. Principe),
- via Rodi (via G. Nucci),
- via Somalia (via L. Picciotto),
- via Neghelli (via E. Loizzo),
- via San Sepolcro (via C. Cattaneo).
Un omaggio inatteso
Eppure pare che a Michele Bianchi sia stata reintitolato qualcosa: la piazza dell’acquedotto cosentino Merone, finanziato proprio grazie al suo interessamento e laddove fu commemorato nel 1934.
Matteo Dalena, nelle vesti di presidente provinciale dell’ANPI fa notare quanto segue: «Per le opere pubbliche realizzate in città e in provincia il fascista Michele Bianchi gode, a mio avviso purtroppo, di buona reputazione in città. Ma è quantomeno inopportuno che prima nel 1993 e poi nel 2009 due amministrazioni comunali, tra l’altro di centro-sinistra, abbiano deliberato e poi dato attuazione all’intitolazione di una piazza a Michele Bianchi al Merone con l’apposizione della relativa targa segnaletica. Bianchi fu tra i fondatori del fascismo, orchestrò la marcia su Roma, e fu tra gli esponenti più radicali, espressione di quello squadrismo intransigente che si macchiò di atroci delitti in tutta Italia: Camere del Lavoro date alle fiamme, giornali bruciati sulla pubblica piazza, arti spezzati, vere e proprie spedizioni punitive. Oggi il suo nome sulla targa segnaletica è coperto da vernice bianca: sono gli stessi cittadini a non gradire evidentemente questa intitolazione. È l’attuale amministrazione comunale a dover decidere se ripristinarla, e dunque rivendicarla, oppure toglierla, intitolandola magari a qualche povera vittima della dittatura fascista».
Uno sì e l’altro no?
Accolgo la segnalazione dell’amico Matteo e però aggiungo: ma che strada si fa per andare all’acquedotto? Via Tommaso Arnoni. E allora perché Arnoni sì e Bianchi no?
In fondo, Bianchi se ne andò tubercolotico dopo soli otto anni di regime. Arnoni, invece – dopo aver bruciato le tappe massoniche passando dal primo al terzo grado in meno di un anno, con l’evidente benestare di Nicola Spada, deus ex machina di quella precisa loggia in cui militava anche Luigi Fera – nel ’24 risultò secondo eletto del ‘listone’ fascista in Calabria, appunto dopo Bianchi. Ottenne 43.000 voti, quasi tutti in provincia di Cosenza. Nella città fu addirittura primo, con 703 preferenze, contro le 608 di Mancini e le 602 di Bianchi.
Davanti alle insistenze del duce, la carica podestarile a Cosenza sarebbe passata nelle sue mani e fu perciò che Arnoni si interessò alla costruzione di scuole e ospedali. Tra il ’31 e il ’41 raccolse non a caso onori e riconoscimenti: Grande ufficiale e poi Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Cavaliere e poi Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, intanto nominato nel ’39 senatore del Regno (mica bruscolini) poiché già deputato per tempo sufficiente (non per una delle altre venti e più nobili categorie dell’epoca), presentato da Pietro Tacchi Venturi (quel gesuita pochissimo delicato in fatto di leggi razziali), e infine – dal ’39 al ’43 – membro della Commissione dell’Economia Corporativa e dell’Autarchia.
L’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo sancì in capo ad Arnoni la decadenza dalla carica di senatore. Tuttavia, con sentenza dell’8 luglio 1948, la Suprema Corte di Cassazione la dichiarò nulla. Pare che «l’analisi dell’attività pubblica, delle opere realizzate sotto la sua supervisione, lo spirito democratico e la testimonianza di esponenti comunisti e socialisti sulla sua condotta irreprensibile», avessero fatto sì che egli venisse reintegrato nella carica di senatore alla quale, «per sensibilità», poi rinunciò.
Epurazioni e ragion di Stato
In realtà gli valsero molto di più le aderenze nella Democrazia Cristiana. All’epoca la chiamavano “continuità”. La stessa che fece sì che il primo Presidente della Repubblica (la Repubblica Italiana, quella democratica, fondata sul lavoro, che ripudia la guerra e vieta la riorganizzazione del partito fascista) sarebbe stato Enrico De Nicola, già presidente della Camera all’inizio del governo Mussolini, già sostenitore della fascistissima Legge Acerbo, già eletto deputato con i liberali nel listone fascista del ‘24, e già nominato senatore nel pieno del 1929… Si sa, tra le epurazioni e la ragion di Stato c’è di mezzo un mare…
E poi che dire di quegli altri relitti cosentini di toponomastica imperialista (sia fascista che prefascista) che a Cosenza ancora sembrerebbero resistere, come via del Tembien, via del Tigrai, via Capoderose, piazza Ogaden, via Macallè, via Adua, o via Daua Parma? O tutti (si fa per dire) o nessuno. E, dopotutto, scempi toponomastici a Cosenza ne sono stati fatti di ben peggiori (vedi centro storico, e non soltanto).
Almeno il 25 aprile, “pensiamoci liberi”…